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M° Gian Piero Costabile

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Se siete interessati ad allenarvi nel Ninjutsu Budo Taijutsu, nel Ju-Jutsu, nel Karate, nello Iaido, nello Shurikenjutsu si prega di far visita presso il nostro Dojo che si trova presso la Palestra Hedonism Fitness & Benessere in Via Panebianco, 452 a Cosenza Tel. 392-2499756 oppure via e-mail a: gianpiero.costabile@hotmail.com
Così facendo si ha la possibilità di fare una lezione gratis.
Chiunque può allenarsi con noi!
Serve solo un certificato medico di sana e robusta costituzione.
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– Presentare il Certificato medico di sana e robusta costituzione psico fisica.
– Non è consentito allenarsi se si è ancora membri di altre organizzazioni.
– Si devono compilare i moduli di domanda e iscrizione d’accordo con le regole interne del Senshin Dojo e dell’ Asd Accademia Karate Cosenza se si vuole iscriversi.
– Ogni anno si devono pagare le tasse per i le nuove iscrizioni e per i rinnovi alla:
- Federazione Mondiale della Bujinkan (Giappone).
- Daito Ryu Aikijujutsu (Giappone).
- Shurikenjutsu Federazione mondiale (Giappone).
- Iaido Federazione Mondiale (Japan).
- Fijlkam-Coni (Italia).
A seconda di quale organizzazione uno vuole diventare membro.
M° Gian Piero Costabile
GIOCO E SPORT PER PICCOLI SAMURAI

GIOCO E SPORT PER PICCOLI SAMURAI
In questo spazio vorrei illustrare i benefici che un bambino può trarre dalla pratica delle Arti Marziali. Primo perché molti genitori sono ancora oggi convinti che le Arti Marziali siano violente e non adatte a loro, secondo perché sembra che su tutti i quotidiani locali, ma anche su quelli nazionali, quando si parla di Arti Marziali, si vedono solo ed esclusivamente i risultati agonistici, come se ci fosse una sorta di gara fra le palestre a chi è più bravo dell’altro. Ma veniamo al discorso principale. “E’ consigliabile la pratica delle Arti Marziali ai Ragazzi?”, Io dico di si, per un ragazzo in età evolutiva, le arti marziali sono prima di tutto espressione, comunicazione e quindi, come dialogo corporeo che avviene con se stesso prima, e poi con gli altri. Certo, bisogna che un genitore non affidi i suoi figli al primo che incontra, poiché tutti sappiamo quanta importanza diano gli psicologi ed i fisiologi a questa età (prima dei 12 anni la maturazione nervosa non è ancora completata). Occorre quindi che i figli vengano affidati a mani sicure: l’insegnamento, la pedagogia delle Arti Marziali per i ragazzi parte proprio facendo centro su di loro. Essi vengono presi come punti di partenza. L’insegnante delle Arti Marziali cerca così di sviluppare le attitudini del bambino in tutti i campi; quello motorio, quello socio motorio, quello fisico e mentale. Il suo scopo sarà quello di contribuire a formare, insieme con la famiglia e la scuola, un adepto completo e adulto. Sin da quando veste per la prima volta il “GI” vestito tipico dei praticanti delle Arti Marziali ed impara ad annodarsi la cintura in vita, il bambino viene calato in un mondo in cui vige la cura della propria persona e delle proprie cose, il rispetto di sé e degli altri, dove nascono nuove relazioni interpersonali e si è in sintonia con il gruppo. E’ un microcosmo quella di una palestra di Arti Marziali, che ha le sue regole che vanno assolutamente rispettate. Regole che poi il bambino si porterà dietro anche quando uscirà dalla palestra e si ritufferà nel macrocosmo, cioè nella nostra Società. Il campo delle esplorazioni corporee e del suo potenziale è vastissimo nella pratica delle Arti Marziali. Esse richiedono equilibrio, coordinazione, relazione spazio temporale. Il bambino sviluppa la facoltà di imitazione, di adattamento. Il suo fisico cambia velocemente con l’allenamento, potenzia tutte le grandi funzioni, i grandi apparati dell’organismo; acquista elasticità, tonicità muscolare e migliora i riflessi. E tutto questo senza che si annoi. Frequentando molte palestre in giro per l’Italia, e vedendo molti bambini fare della semplice ginnastica a corpo libero, mi spiace, talvolta, vederli tristi, annoiati, disinteressati. La noia, infatti, è il peggior nemico per il giovane. Le Arti Marziali offrono il vantaggio di fare un’ottima educazione fisica, di divertirsi, di imparare uno sport e un’autodifesa in un tempo solo. Certo, l’insegnante di Arti Marziali che ha che fare con giovani in età evolutiva deve stare molto attento. Deve essere preparato, deve dividere gli adolescenti dagli adulti, farli lavorare per non più di un’ora e mezza, appunto per evitare il disinteresse, deve saper trasmettere bene quello che sa, essere un buon modello per i suoi allievi, saper gestire bene l’entusiasmo che sicuramente avrà. Se riuscirà a fare tutto ciò, le Arti Marziali sono certamente consigliati per i vostri figli.
Gian Piero Costabile
A.S.D. Accademia Karate Cosenza
Maestro Specializzato C.O.N.I.
6° Dan FIJLKAM-CONI
KAMIDANA

Il kamidana (神棚, letteralmente “mensola del kami”) è l’altare shintoista domestico. Si trova in Giappone e non solo nelle case dove si professa lo Shintoismo. Nei Dojo (salvo professione della fede Buddista viene regolarmente ubicato in kamiza (letteralmente il posto d’onore del Kami, la parete posta a ovest), nel totale rispetto delle tradizioni giapponesi.
Come è fatto: Ha solitamente la struttura di un santuario (Jinjia) in miniatura, gli stili sono molteplici e distinguibili dalla forma del tetto e anche dal numero delle porte. Il Jinjia domestico o per strutture pubbliche (Dojo, Uffici, Fabbriche) possiede le caratteristiche degli altari dei Jinjia pubblici, all’interno ospita: lo specchio che rappresenta Amaterasu, i piatti e le ampolle per le offerte, un Ofuda (Supplica portafortuna dedicata ad un Kami specifco). Tali offerte possono essere composte da riso (sia cotto che crudo), sale, sake, denaro ,frutta o altri generi alimentari.
Viene posizionato su di una mensola in alto, con la/e porta/e che guardano a est.
Ai lati sono posizionate delle piccole lanterne o da candele ed vengono anche posti in appositi vasi 2 ramoscelli di Sakaki (cleiera japonica) chiamati Tamagushi, generalmente ,sopra il santuario e per tutta la lunghezza della mensola viene teso uno Shimenawa (ovvero una corda di paglia a cui sono attaccate delle strisce di carta ripiegata (Gohei). Lo specchio è il simbolo più comune dello Shintoismo, lo specchio ha una luce pura e riflette, grazie alla sua convessità la luce dell’ambiente in maniera garbatamente diffusa, esso simboleggia la presenza superiore di Amaterasu e ricorda la al praticante Shintoista la necessità di una mente pura a somiglianza dello spirito del Kami abitante nel Jinjia . La pratica domestica: La pratica del culto domestico segue i seguenti canoni: al mattino dopo la pulizia mattutina e prima di iniziare la colazione ed ogni altra attività si esegue “Nirei Nihakushu Ippai” (2 inchini, 2 battiti di mani, 1 inchino)e si deposita una piccola offerta, nel momento di raccoglimento si esprimono i propri ringraziamenti al Kami per le buone cose avute in dono in passato e si auspicano cose altrettanto positive per il futuro .
La pratica nei Jinjia : All’ingresso di tutti i Jinjia vi è posizionata una vasca di acqua corrente che serve per un momento “Lustrale”(Temizuya), si lavano le mani (prima la sinistra e poi la destra, ci si sciacqua la bocca con un piccolo sorso di acqua, questo rito chiamato “temizu”) che viene svolto anche prima di entrare in un Jinjia poi si getta una piccola offerta in danaro nella cassa posta all’apertura di accesso della parte consacrata del Sancta Santorum si esegue “Nirei Nihakushu Ippai”, quindi si procede alla recitazione di un Norito (preghiera) in maniera raccolta o chiaramente udibile. Anticamente le offerte in cibo poste sul kamidana venivano consumate durante un convivio rituale con tutti i partecipanti alla liturgia.
KYUJUTSU

KYUJUTSU
Il kyujutsu è il nome dato al classico combattimento di tiro con l’arco risalente all’epoca feudale giapponese. L’allenamento richiede che un arciere tiri 1000 frecce al giorno, e che sia capace di maneggiare tutti i tipi di arco a pieno tiro. La corretta postura (yagamae) era strettamente necessaria in battaglia, dando all’arciere uno psicologico vantaggio sul nemico. Gli arcieri eseguivano tutta la meccanica del kyujutsu: afferrare saldamente il laccio (tsurugami), prendere e segnare la mira (monomi) elevamento ed estensione dell’arco (uchiokoshi kikitori), estensione completa (daisan), trazione massima (jiman) e lancio (hanane). A un guerriero veniva insegnato a “sentire” l’arco le frecce e le sue mani come un unico insieme, e perfino dopo il lancio, gli era stato insegnato a non abbassare la guardia. I bersagli di tiro potevano essere sia mobili che fissi. L’uso di bersagli vivi era molto popolare; come a Taka Inu, dove arcieri a cavallo colpivano i cani che fuggivano. Dopo l’introduzione delle armi da fuoco nella metà del 16° secolo, il kyujutsu militare iniziò il suo declino fino a divenire uno sport.
Forme di kyujutsu

Kyudo tiro con l’arco giapponese; combina l’arte fisica con i principi filosofici del buddismo zen. Centrare il bersaglio non è lo scopo principale. Come tutte le arti marziali giapponesi, il punto focale è lo stile e la maniera. Più importante è il beneficio al carattere dell’uomo che deriva dallo studio dell’arco in generale. L’arco giapponese risale a 1400 anni fa, e ha avuto grande influenza sulla storia del Giappone. E’ infatti una delle 18 arti marziali nelle quali i samurai giapponesi dovevano essere esperti. L’arco giapponese è quasi 7 piedi e mezzo di bambù laminato e legno. L’impugnatura non è centrata, ma è approssimativamente 1/3 della distanza dal centro dell’arco; il laccio è fatto di canapa. La lunghezza della freccia da 36 a 40 pollici con 5 pollici di piuma. Il guanto per tirare (yugake) è fatto di pelle di daino. Il costume tradizionale consiste in una lunga blusa (monpoku) infilata in una lunga gonna (hakama). Le scarpe possono variare: molti uomini vanno a piedi nudi. Sebbene lo scopo pratico del kyudo è di colpire il bersaglio, si può anche praticare rimanendo in posizione eretta, nella posizione corretta, e maneggiare l’arco con profonda concentrazione. Il tiro dell’arco è diviso in 8 fasi (hasetsu). I gradi dei kyudoka sono suddivisi dal 1° al 10° dan, come nel karate. I kyu sono il 1° e il 2°. I gradi non sono visibili sul vestito. Ci sono 3 tipi di bersagli nel kyudo: bersaglio chiuso (chikamato), bersaglio di 14 pollici posizionato a 85 piedi; bersaglio lontano (enteki), 32 pollici a 180 piedi; e bersaglio in volo, (inagashi). Piedi (ashibumi): arrivare alla posizione per il tiro. Questa è generalmente eseguita da una posizione dove il bersaglio viene posto obliquamente. Entrambi i piedi sono a 45 gradi, talloni allineati e piedi aperti in base all’apertura delle spalle. Stabilizzare l’arco (dozukuri). Il peso del corpo è centrato. L’arciere prende fiato e si prepara per la fase successiva. Tenere l’arco (yugamae): l’arciere colloca l’arco al posto giusto. Mette la freccia nella corda e verifica la sua presa sull’arco. Alzare l’arco (uchiokoshi): l’arco viene alzato alla lunghezza del braccio, lentamente, sopra la testa. Tensione dell’arco (hikiwake): la mano stretta spinge l’arco verso il bersaglio; la freccia è quindi tirata indietro fino dopo l’orecchio. L’unione (kai): quando la corda dell’arco viene tirata completamente l’arciere mantiene questa posizione. E’ questo il momento in cui mente e corpo diventano una cosa sola. Lancio (hanare): la freccia è tirata. Questo deve essere un gesto naturale, non forzato dalla persona. Seguire attraverso (zanshin): l’arciere guarda la freccia mentre rimane immobile. E’ questo è il momento dell’illuminazione.
Kyudo (弓道), ovvero letteralmente la via dell’arco, è un’arte marziale Giapponese.
Per secoli, l’arco e le frecce furono le armi principali del combattente giapponese, così come lo furono per molti altri popoli. Conosciuta prima come kyujutsu e solo dal secolo scorso come kyudo, l’arte era pienamente sviluppata con un complesso sistema di pratiche e di tecniche, una varietà inizialmente ampia di stili, che in seguito si ridusse a pochi stili principali che differivano fra loro per l’uso (cerimoniale, “agonistico” e bellico) e quindi per la tecnica più adatta a tale uso. La più recente riforma Meiji volle successivamente che i vari stili si unissero in un’unica disciplina (kyu-do, come lo judo ecc.)che preparata a tavolino prevedeva una sempre più articolata teoria. Conseguentemente nasce una federazione giapponese e successivamente internazionale che collega l’arte stessa alla nascita della nazione giapponese, legandola a una dimensione mistica, esoterica e culturale, alla quale si contrappone lo stile Insai della scuola Heki (Heki Ryu Insai Ha) che si ripropone da 500 anni in linea di successione diretta con uno spirito dedicato principalmente alla tecnica e negando mistificazioni di tipo esoterico e spiritualista.
Nel Giappone feudale, i campi per il tiro con l’arco, all’aperto o al chiuso per l’esercitazione al bersaglio si trovavano nella casa centrale di tutti i più importanti clan militari.
L’arco e la spada lunga erano le armi dei nobili e loro vassalli e samurai; i soldati comuni usavano la lancia e la spada corta.
Il programma d’addestramento degli arcieri era basato sui ripetuti tentativi di colpire bersagli fissi e mobili stando in piedi e a cavallo. L’addestramento a cavallo, naturalmente, era più aristocratico, sia per carattere sia per tradizione, dell’addestramento a piedi: richiedeva una gran coordinazione, per controllare un cavallo al galoppo, mentre simultaneamente si scagliava una freccia dopo l’altra contro una serie di bersagli diversi che potevano essere fissi o in movimento.
L’abilità dimostrata dai guerrieri nell’uso di un certo arco indusse gli storici cinesi a chiamare i giapponesi “il popolo del lungo arco”. Si trattava dell’arco da guerra per eccellenza, il daikyu, usato dai guerrieri a cavallo o a piedi. Aveva una lunghezza che andava dai due metri e venti ai due e quaranta, ma ve n’erano anche di lunghi due metri e settanta. Oltre all’uso puramente pratico come strumento di combattimento, o come parte d’esibizioni rituali, l’uso di quest’oggetto coinvolgeva sulla scala più vasta la personalità dell’individuo, dal punto di vista fisico, mentale e infine spirituale.
Nei giorni nostri si è voluto proporre il kyudo come una disciplina sportiva, focalizzando di più su fattori meramente esteriori di forma ed “eleganza” che sull’efficacia della tecnica e della coordinazione soggettiva dell’individuo. Dunque, il criterio di giudizio e di qualificazione vengono spostati dalla dimensione tecnico-pratica, a quella che concerne i fattori esteriori.
IL SENSEI

IL SENSEI
L’ insegnante della via, ovvero il maestro, Sensei in giapponese, assume nelle culture asiatiche un significato diverso da quello che il termine ha in Europa. In Asia egli non è colui il quale può trasmettere il sapere all’ allievo, ma colui il quale indica la via (Do) da seguire. Questa figura si inquadra, allora, in una cultura il cui scopo va ben oltre l’apprendimento delle forme, per giungere ad un confronto interiore costruttivo che offre la possibilità di percorrere la Via. L’ insegnamento di un Maestro non sarà recepito, allora, da quelli che vogliono apprendere solo le forme. Si rivolge, piuttosto, all’ insita capacità che l’uomo ha di volgere i propri sforzi verso l’alto, verso il “Maestro che in lui sta “ ancora sopito. Il termine Maestro indica l’uomo che si trova sulla Via, che conosce i problemi degli ostacoli che sulla Via, si trovano e che è nelle condizioni di aiutare gli allievi a superare, le difficoltà connesse con l’esercizio da lui stesso condotto per indicare la Via e non per altri scopi. Tutte le tecniche di esercizio mirano ad una crescita interiore e tanto più completa è la tecnica quanto più forte la necessità sentita dall’ uomo di percorrere la Via. Ogni vero maestro usa la propria arte con questo fine. In Asia, un uomo che ben conosce la più raffinata arte o più alta filosofia e non intende la propria conoscenza come mezzo al servizio della Via, non viene considerato un maestro. Il Maestro di Via è un uomo che nell’ espressione formale della lotta interiore ha compreso il più alto ideale. L’insegnante di Via non è l’insegnante nel senso che più facilmente richiama, non è colui che distingua il giusto dal falso, il mediatore di verità dogmatiche. Egli riconosce tutto ciò che è risultato di imitazioni, ma solamente per indicare la Via che porta alla comprensione personale, a liberarsi di quei vincoli imposti dalle norme e consuetudini, delle idee non vagliate e dei pregiudizi. Allora, l’allievo che ha intenzione di percorrere questa Via non può essere paragonato al Maestro per nessuna ragione. Dire di aver acquistato la conoscenza tradizionale di un maestro significa affrancarsi dall’ agitazione eterna. L’ unica cosa che interessa al Maestro è la lotta che avviene nel ‘ Io del proprio allievo. Per il vero Maestro il principiante altro non è che una possibilità di crescita cui non è stato dato sfogo. Nell’ assumere la responsabilità propria di un insegnante egli combatterà contro quelle forze che hanno impedito la crescita dell’allievo. I suoi attacchi sono diretti contro tutto ciò che è stabilito, definitivo e costruito, indipendentemente dall’ atteggiamento dell’Io. Il Maestro si pone in contrasto con tutto quanto viene utilizzato dall’ Io per la propria stabilità. Il Maestro sembra, allora, autoritario e arbitrato perché sopprime la spinta emergente verso la realizzazione e l’affermazione di se stessi, distruggendo, cosi, nel contempo, i valori e la mancanza di valori. Il Maestro lascia intatto solo ciò che proviene dall’uomo, ciò che nasce dalle sue profondità e rimane puro, ciò che nasce dalla lotta per la conoscenza legittima. Quindi, per l’allievo che si appresta sulla Via gli insegnamenti di un Maestro sono una lotta senza fine sulla vita e sulla morte. Nessuno di quelli che vogliono intraprendere questa strada può sottrarsi a questa lotta. In questa è coinvolto l’Io con le sue pretese, che rende schiavo l’uomo migliaia di volte. Solo quando l’allievo diventerà Maestro conoscerà il valore di questa esperienza. Nessun allievo dovrebbe aspettarsi da un Maestro l’atteggiamento pedagogico dell’insegnante o che questo gli insegni i valori tradizionali, perché sarà proprio lui a contrastare quanto di più caro ha l’uomo comune. Gli insegnamenti del Maestro vanno contro i principi comunemente da tutti accettati poiché egli distrugge ciò che può, tutto ciò che vuole. Il Maestro insegna a contrastare l’avidità, il narcisismo, l’egoismo, la stupidità, l’inerzia e l’ottusità. Il Maestro incita sempre a superare l’Io. In questo modo egli diventa il maggior nemico del pensiero sicuro, dell’imitazione intellettuale e della conoscenza approssimata e non verificata personalmente. Ogni mezzo è idoneo per eliminare quei valori fittizi che intralciano la Via dell’uomo libero. Questo suo comportamento non si rifà ad alcuna visione del mondo, non imita alcuna ideologia e saggezza che non siano state oggetto di verifica personale, della lotta per la verità e la conoscenza. Egli si libera di qualsiasi forma, schiva ciò che si ottiene senza sacrificio e che è fine a se stesso. Il Maestro insegna il divenire, non l’essere. In linea di principio un Maestro non insegna, ma supervisione la lotta dell’allievo per il senso della vita, per definire il suo spirito indipendente. Il suo compito è di eliminare ciò che impedisce questa lotta. Il Maestro sa come l’allievo deve superare gli ostacoli operando autonomamente, egli conosce i termini della lotta. L’allievo è il protagonista ma il Maestro indica le regole. E se l’allievo non le rispetta non imparerà nulla e nulla capirà. La maestria non sta nel raggiungere qualcosa, come forse crede l’allievo, ma nel determinare un comportamento di base che favorisca uno sviluppo autonomo. L’allievo raggiungerà questa capacità solo dopo un lungo e sofferto confronto con se stesso. La Via inizia laddove egli smette di cercare valori esterni guardando nel suo mondo interiore. Fino a quando non assumerà questo atteggiamento il Maestro sarà ai suoi occhi come un ostacolo insuperabile. Il suo compito più importante è insistere proprio quando l’Io sta per emergere. La Via costretta dall’ Io non è visibile e quindi il Maestro contrasterà l’Io fino a quando l’allievo non si affianca. L’allievo che lotta per progredire vive per molti anni in uno stato di indecisione tra la forma e la Via. Nello sforzo iniziale sopporta migliaia di tentazioni dell’Io ed ogni volta che vede un obiettivo che sembra essere più importante del superamento di se stessi egli si rivolta contro il Maestro. Questo accade fino a quando l’allievo non abbandonerà la ricerca del miglioramento fine a se stesso, per combattere, anzi, tale atteggiamento. Ma quando l’allievo prende coscienza di questa situazione egli continuerà ad ubbidire al vecchio istinto, non riconoscendo di cadere ogni volta nella solita superficialità. Il Maestro non segue la sua logica ben radicata, ma guarda al suo essere riconoscendo, dietro ogni maschera, la verità celata. Per questo entrambi vivono per anni un conflitto tra la forma e la Via che si risolve nel momento in cui tra i due si stabilisce un rapporto di autentica fiducia. Solo quando diventerà Maestro a sua volta l’allievo si renderà conto della solitudine e della disperazione che caratterizzano la lotta che il Maestro conduce contro l’enorme forza dell’inerzia umana. Ogni autentico Maestro sa bene che la conoscenza derivante da profonde esperienze sarà oggetto di contrasto solo in modo facoltativo se essa è una conoscenza non differenziata. Un Maestro può discutere delle cose che gli capitano solo con un altro Maestro. Oggi c’è molta confusione nella definizione di Sensei, molti allievi alle prime armi spinti da un egocentrismo che arriva al’esasperazione, dopo pochi anni di pratica pretendono dai propri allievi farsi chiamare “Sensei”, mi è capitato personalmente in giro per il mondo assistere a lezioni di presunti Sensei della domenica con nessuna cognizione di causa, sarebbe opportuno per queste persone cambiare disciplina e non insegnare “Arti Marziali”. Combinano molti danni psicologici per primo e fisici subito dopo. Il cosiddetto fumo negli occhi oggigiorno non funziona più, i corsi e le qualifiche presi in un fine settimana non funzionano più, con i potenti mezzi dell’informatica vengono smascherati immediatamente. Mi dispiace purtroppo che i cosiddetti allievi si accorgono di tutto ciò quando oramai è troppo tardi. Per fare un esempio nell’unica federazione che riconosce il karate in Italia la Fijlkam per arrivare a Maestro (Sensei) devi prima diventare: Aspirante Allenatore, poi Allenatore poi ancora Istruttore ed infine Maestro, per fare questo passeranno tanti anni e non due o tre anni come qualcuno possa pensare, inoltre le qualifiche richiedono molta competenza ed aver compiuto almeno 40 anni di età ed avere i requisiti per poter partecipare al concorso per Maestri. Quindi come potete evincere non è proprio semplice nella fattispecie del Karate diventare in pochi anni Maestri (Sensei). Non parliamo poi delle Arti Marziali Tradizionali dove la competenza, l’abnegazione il cercare alla fonte è di una necessità assoluta. Un consiglio che ho sempre dato specie ai genitori dei bambini e allievi in genere, quando vi recate in una palestra di Arti Marziali, visionate le qualifiche del vostro futuro Maestro, chiamate gli organi preposti (C.O.N.I.- Federazioni Nazionali ed informatevi se sono iscritte all’albo dei Maestri e al registro nazionale del Coni), non ci sono giustificazioni, se uno di questi suggerimenti non vi soddisfa cambiate immediatamente palestra, non cercate la palestra per forza sotto casa!
YOROI (ARMATURA DEI SAMURAI)


YOROI
(ARMATURA DEI SAMURAI)
L’armatura ( Yoroi ) utilizzata dai Samurai era meno pesante di quelle usate in Europa nel medioevo poiche’ era confezionata con materiali piu’ leggeri. Queste protezioni erano studiate per soddisfare le esigenze dei Samurai che privilegiavano la facilita’ dei movimenti a una maggiore copertura difensiva. Partendo dal presupposto che nessuna armatura era in grado di proteggere completamente, in combattimento risultava molto piu’ utile potersi muovere con maggiore agilita’ e velocita’. Come tutto quello che riguardava i Samurai, anche l’armatura assunse significati che andavano oltre il semplice utilizzo militare. Il guerriero non voleva certo mimetizzarsi, voleva anzi essere riconosciuto, con i segni del suo clan e quelli di identificazione personale. Quindi i lacci, in cuoio o seta, che univano le varie parti, avevano i colori distintivi. Questo, oltre al significato simbolico, aveva anche una notevole utilita’ pratica, infatti, grazie ai colori dei lacci ( Odoshi ) i Samurai potevano riconoscere compagfni e nemici nella confusione della battaglia. Le allacciature inoltre erano anche un segno distintivo: piu’ era fitta la loro trama, piu’ elevato era il grado di nobilta’ di chi la indossava( O-Yoroi ). L’importanza di un guerriero poteva essere valutata dalla complessita’ della sua armatura: se era ricca di elementi protettivi, apparteneva ad un condottiero, mentre le protezioni diventavano sempre di meno, man mano che si scendeva di rango. Oltre alle allacciature, un altro simbolo di riconoscimento solitamente era portato sull’elmo ( Kabuto ) e sugli stendardi (il Mon o il Komon, emblema registrato con tanto di permesso governativo, che distingueva le varie famiglie) che potevano essere identificati anche a grandi distanze. Cosi’ come avveniva per i fabbri-artigiani che costruivano le famose spade (Katana), anche i produttori di armature erano tenuti in gran considerazione, infatti erano molto dotati e capaci di produrre protezioni semplici, leggere ed allo stesso tempo efficaci. Le armature complete erano destinate alla protezione della testa ( Kabuto ), delle spalle ( Sode ), delle braccia ( Kote ), del busto ( Do ), del ventre ( Kuzazuri ) e delle gambe ( Haidate ) fino a coprire i piedi (Suneate). Inizialmente erano placche di cuoio cucite sopra la stoffa, in seguito il cuoio venne placcato con delle lastre in ferro e, infine, il ferro sostitui’ completamente il cuoio dando origine alle Yoroi. La corazza, in lamine di ferro, era sostenuta da una fitta maglia metallica che rendeva i movimenti piu’ semplici e la struttura meno rigida. La componente piu’ curiosa erano le spaventose maschere ( Menpo 面具) che i Samurai portavano con il triplo scopo di proteggere il volto, di costituire una base per l’elmo e di incutere timore nell’avversario. Gli stili erano tantissimi e tutti destinati a svolgere il loro sottile effetto psicologico: l’avversario di un Samurai poteva trovarsi di fronte un guerriero dalle sembianze di un demone, di un animale, di un bambino, di una donna o di un vecchio. Curiosamente, le maschere impedivano ai guerrieri ogni movimento della bocca e delle labbra. Un altro elemento molto importante sia dal punto di vista funzionale che da quello simbolico, era l’elmo. Questi copricapi, principalmente in ferro, erano forgiati nelle forme piu’ strane e si caratterizzavano dall’apertura che doveva permettere al dio della guerra di entrare in loro e aiutarli in battaglia. Dato che gli artigiani giapponesi generalmente disdegnavano la produzione “in serie”, la maschera e l’elmo di ogni Samurai erano solitamente dei pezzi unici che li distinguevano dagli altri guerrieri. L’effetto spaventoso (per gli avversari), dovuto all’imponenza delle armature e alle decorazioni volutamente impressionanti delle maschere e degli elmi, veniva amplificato da lunghi mantelli, cappe (come, per esempio, l’Horo), e soprabiti (come, per esempio, lo Jimbaori) che rendevano i Samurai simili ad esseri giganteschi. Tra le dotazioni di un Samurai, vi era un piccolo salvagente utile per l’attraversamento dei fiumi. Bisogna infatti tenere conto che, anche se le armature giapponesi non erano estremamente pesanti, cadere in acque profonde con una corazza addosso avrebbe potuto causare l’annegamento anche di un uomo molto robusto. Coìmpletavano la dotazione bellica del Samurai le tre sacche che questi guerrieri portavano sempre con se’ durante le campagne militari: una era destinata al trasporto del cibo; una seconda era destinata a contenere esclusivamente riso; la terza sacca serviva per contenere le teste mozzate degli avversari uccisi in guerra.
1° FOTO
- kabuto : elmo
- gyo-yo : decorazioni sul petto. “Kyu-bi-no-ita” e “Sendan-no-ita” servivano anche come protezione.
- o-sode : protezione delle spalle
- hikiawase-o : laccio per stringere il “dou”.
- kote : protezione delle braccia e del dorso della mano.
- kurijime-o : cintura.
- kusazuri : protezione dei fianchi appesa al dorso. Usualmente composta di quattro strati, a volte era ancora piu’ robusta.
- haidate : protezione delle ginocchia
- sune’ate : protezione della parte bassa delle gambe.
2° FOTO:
- tehen : sommita’ dell’elmo
- hachi : parte principale dell’elmo.
- maedate : decorazione
- fukikaeshi : attaccatura dello shikoro.
- mabisashi : visiera a protezione per la parte superiore del viso e dai raggi del sole
- shikoro : protezione della nuca solitamente composta da 4 strati: “hachi-tsuki-no-ita”, “ni-no-ita”, “san-no-ita” e “hishi-nui-no-ita”.
- menpou : maschera a protezione del viso
- o : legaccio per fissare l’elmo alla testa
- kan’muri-ita: rialzo della spalliera
- mizunomi-no-kan : chiusura della protezione delle spalle.
- kougai-kanamono : supporto per fissare meglio la protezione della spalla. Si iniziò ad usare alla fine del periodo Kamakura.
- hiki-awase : laccio per stringere il “dou”
FUNDOSHI perizoma di lino o cotone sbiancato e foderato in inverno.
SHITAGI camicia molto simile al kimono ma molto piu’ aderente.
OBI cintura destinata a fissare lo shitagi, girata due volte intorno alla vita ed annodata sul davanti.
YOROI HITATARE veste di grande pregio, solitamente riccamente decorata da abili artigiani.
KOSHI-ITA calzoni di tipo cerimoniale a spacchi laterali, in battaglia probabilmente sostituiti dagli kobakama, piu’ corti e aderenti, generalmente destinati ai guerrieri di rango inferiore.
KAWA-TABI calzini di pelle, con la caratteristica cucitura che separa l’alluce, (di stoffa MOBIEN-TABI).
HADAKI gambali di cotone o lino legati alla parte interna del polpaccio.
TSURANUKI stivali foderati in cotone pesante o seta, le suole in cuoio rigido.
WARAJI sandali costruiti con vari materiali, si usavano nelle campagne estive.
SUNE-ATE schinieri di lamina metallica laccata o cuoio laccato cuciti su tessuto imbottito.
ABUMI ZURE banda in cuoio e fissata nella parte inerna dello schiniero, atta a proteggere il polpaccio dallo sfregamento contro sella e staffe.
HIZA-YOROI KAKUZURI coppa metallica con funzione di protezione delle ginocchia.
HAIDATE grembiule diviso nel mezzo a protezione delle gambe, poco usato per via dell’intralcio notevole al movimento.
ITA-HAIDATE cosciale di foggia piu’ europea, costituito da lamine curve cucite su tessuto.
KUSAZURI-KYAHAN gambale di maglia metallica, cucito su stoffa imbottita, usato per lo piu’ da fanti o bushi di rango inferiore.
YUGAKE guanti di pelle morbidissima.
KOTE-TEGAI manica di stoffa corazzata da maglia metallica o piastre metalliche.
KAMURI-ITA piastra metallica a protezione della spalla, veniva fissata al petto e alla manica corazzata con due corde di seta intrecciata.
GAKU-NO-ITA piastra metallica a protezione del braccio, fissata con maglia metallica alla manica.
HIJ-GAME cubitiera a protezione del gomito, cucita sulla manica.
IKADA lamine metalliche longitudinali a protezione dell’avanbraccio, poteva essere anche un solo pezzo.
TETSU-GAI piastra modellata a coprire il dorso della mano, comprendeva 4 anelli metallici in cui si infilano le dita, piu’ anticamente comprendeva anche della maglia metallica, poi abbandonata.
TOMI-NAGAKOTE collare di pelle o maglia metallica, arrivava solo fino ai pettorali, era collegato alle maniche corazzate.
WAKI-BIKI lembi di maglia metallica atti a chiudere le fessure tra il do e le maniche corazzate, venivano fissate con botan-gate (bottoni), ganci (kohaze-gake), o corde (himo-tsuki).
DOU corpo centrale della corazza costituito da lamine metalliche laccate, generalmente di colore nero, marrone, ruggine o rosso, e unite tra loro tramite allacciature con cordicelle di seta colorata (odoshi-ge) o cuoio; la particolarita’ dell’allacciatura era quella di formare un disegno o una scala di colori, che donava al DOUuníaspetto splendido.
HARA-ATE corazza in due pezzi sullo stile delle armature europee, ebbe una scarsa diffusione almeno fino al XV secolo, si pensa che la sua introduzione sia dovuta ai contatti con i mercati portoghesi.
HARAMAKI-DO do aperto sul dorso, in alcuni casi chiuso da una piastra aggiuntiva, denominata la piastra del codardo.
DOU-MARU dou allacciato sui lati.
KARA-ATE bretelle imbottite e ricoperte di cuoio, usate per sostenere il do.
SODE spallacci di lamina allacciata come il dou, servivano a proteggere le braccia e le spalle, con lo O-YOROI, erano di forma squadrata e molto ampia, con il DO-MARU, diventavano piu’ curvi e corti, i primi venivano fissati tramite lacci di seta colorata alla schiena (agemaki), i secondi si allacciavano direttamente alla manica corazzata.
HATO-O-NO-HITA piastra legata alla schiena e pendente sul davanti a chiudere il varco tra il dou e le braccia (sinistra)
SENDAM-NO-ITA idem ma destra.
KOSHIATE reggispade di varia foggia e forma.
WAZIKASHI spada corta.
TACHI spada lunga, in ambedue i casi sono nomi propri di quella che noi occidentali definiamo katana.
NO-DACHI katana di dimensioni e peso notevolissimi, solitamente portata dietro la schiena.
NODOWA gorgiera in lamine metalliche allacciate con lo stile odoshi-ge, veniva allacciato con cordicelle al collo.
HACHI coppo dell’elmo, costituito in genere dalle otto alle sedici lamine troncate in cima e unite a mezzo rivettatura.
HOSHI-KUMO lamine parallele al coppo a rinforzo della parte frontale.
TATAMI-KABUTO elmo composto da cechi di lamine unite per allacciature e quindi pieghevole, non usato in battaglia.
HARAIDATE sostegno per l’elmo.
MAEDATE elmo, di varie foggie e materiali.
SHIKORO paranuca, composto da tre a un massimo di sette lamine metalliche laccate e unite con cordicelle di seta, il numero delle lamine metalliche, definiva la tipologia dell’elmo, il sammai-kabuto tre lamine, il gomai-kabuto cinque lamine, l’interno era generalmente laccato di rosso vivo, il tutto era fissato allo haci con rivetti.
FUKIGAESHI formati con il prolungamento di una delle lamine dello shikoro, o con il lembo prolungato dello haci, serviva a deviare i fendenti alle spalle o al viso.
UCHI-BARI sotto elmo formato da cordicelle di pelle a scopo sospensivo.
HACHI-MAKI fascia di seta generalmente bianca portata annodata sulla fronte o sulla nuca, il suo scopo era di impedire al sudore di colare negli occhi durante il combattimento.
MEMPO maschera prottettiva del viso in vari materiali, modellata con sembianze demoniache, aveva lo scopo di terrorizzare il nemico, saldamente collegata all’elmo, aveva la duplice funzione di proteggere il viso, e di mantenere l’elmo ben saldo in testa.
GUSOKU-BITSU cassa per custodire l’armatura e l’elmo.
La rivolta dei Boxer

PREMESSA
La rivolta dei Boxer del 1900 in Cina viene stentatamente ricordato da qualche rigo nei libri di testo in uso nelle scuole. La stampa l’ha citata recentemente a proposito della polemiche fra Vaticano e Cina seguiti alla proclamazione di 120 cinesi martirizzati dai Boxer ma pochi in Occidente sapevano di che si trattasse. Eppure si tratta di un avvenimento di grandissima importanza che ha segnato profondamente la storia della Cina e quindi dell’umanità: con essa infatti tramontò ogni possibilità che in Cina si affermasse la” modernizzazione” portata dagli Europei come invece avveniva in Giappone. La conseguenza fu che, mentre il Giappone, che in sostanza è un paese periferico della civiltà cinese, ha svolto una parte di primo attore nella storia del 900, la Cina invece fu economicamente e politicamente dominata dagli Europei e poi, caduto il potere centrale fu preda di guerre infinite fra i signori della guerra, i nazionalisti , i comunisti, i Giapponesi e solo in tempi recentissimi pare riprendere quel posto primario nel mondo che ha sempre avuto dagli albori della civiltà In questo lavoro non intendiamo approfondire la “cronaca” degli avvenimenti che descriviamo solo per sommi capi, ma cerchiamo soprattutto di chiarire motivazioni e atteggiamenti degli attori di quell’antico dramma: i cinesi comuni e gli intellettuali, i Boxer, la Corte imperiale, gli Europei, i cristiani. Siamo altresì convinti che la comprensione di quei lontani avvenimenti possa giovare a comprendere quello che avviene ai nostri giorni: noi crediamo che fondamentalismo islamico e rivolta dei Boxer, pur nella loro profonda diversità, abbiano cause ed effetti analoghi come alla fine di questo lavoro chiariremo
LE ORIGINI DEL NAZIONALISMO CINESE
Tutte le civiltà e tutti i popoli per una illusione prospettica quasi impossibile ad evitare sono etnocentrici: ritengono cioè di aver un primato su tutti gli altri. Molte etnie primitive non hanno nemmeno un termine per indicare se stessi ma semplicemente si definiscono “gli uomini”, quasi che gli “altri” non lo siano veramente Un fenomeno simile si manifestava in Cina: essi definirono il loro Paese “Zhongguo”, con una parola che possiamo tradurre come “il centro” nella convinzione che tutto il resto del mondo è periferia, popolata da “barbari” come essi definivano gli altri popoli. La Cina effettivamente si trovò, nella sua millenaria storia nella condizione in cui si era trovato per qualche secolo l’Impero Romano al suo apogeo: uno spazio di civiltà circondato dalla barbarie. Geograficamente la Cina era isolata dalle altre civiltà, circondata da montagne, giungle e soprattutto steppe dalle quali potevano irrompere popoli barbari e distruttori, contro i quali bisognava innalzare muri e difese (La grande muraglia) Nelle altre tre grandi civiltà storiche, Cristianesimo, islam, India, non abbiamo un fenomeno simile. L’Europa cristiana si è sempre dovuta confrontare con l’Islam che a sua volta ha dovuto confrontarsi anche con l’india. Quando alla fine del 1500 in Cina arrivarono gli Europei, i Cinesi non cambiarono la loro convinzione di fondo: ne apprezzarono pure alcune capacità come ad esempio le cognizioni astronomiche e le tecniche della fusione di cannoni portate dai Gesuiti ma le considerarono sempre eccezioni al principio generale che non ci fosse nulla al di fuori della Cina che i cinesi non sapessero fare meglio e che nulla veramente di interessante potesse mai venire dal di fuori. Pure avendone le capacità tecniche marittime i Cinesi non vollero, deliberatamente, impegnarsi nella scoperte geografiche. Non esplorarono il Pacifico che pure era alla loro portata né tanto meno l’America e l’Africa. L’atteggiamento cinese è ben rappresentato dalla risposta che nel 1770 l’imperatore Cieng lung diede all’ambasciatore del re Giorgio III di Inghilterra che chiedeva maggiori rapporti:
“Se pure tu affermi che la tua riverenza verso la nostra celestiale dinastia ti riempie del desiderio di acquistare gli elementi della nostra civiltà, il nostro cerimoniale e i nostri codici di leggi differiscono così radicalmente dai vostri che, anche se il tuo inviato riuscisse ad impadronirsi dei rudimenti della nostra civiltà, tu non potresti mai riuscire a trapiantare le nostre maniere e i nostri costumi nella tua terra straniera. Perciò, per quanto esperto possa il tuo inviato divenire, non potrebbe esserci alcun vero vantaggio. Nel reggere il vasto mondo, io non ho che uno scopo, quello di mantenere un buon governo e di adempiere ai doveri dello stato: oggetti strani e costosi non mi interessano”. |
Un barbaro non solo non aveva nulla di offrire se non cose futili, ma non sarebbe nemmeno mai riuscito, per quanto si fosse sforzato a diventare un cinese, cioè un “uomo civile “Ma alla metà dell’800 la situazione mutò profondamente. L’Occidente aveva sorpassato e di molto il livello tecnico della Cina. Nella guerra dell’oppio (1839-42) i Cinesi furono stupefatti non tanto dalla sconfitta ma dalla facilità con cui gli Europei la ottennero. Nei 50 anni seguenti gli Europei umiliarono continuamente i cinesi che si mostravano del tutto incapaci di opporsi ad essi. Nel 1894 poi anche i Giapponesi che avevano adottato parzialmente elementi di civiltà europea sconfissero facilmente i Cinesi in Corea.
IL NAZIONALISMO COLTO
La superiorità occidentale era ormai innegabile, era sotto gli occhi di tutti, con le cannoniere sempre pronte ad aprire il fuoco ad ogni minima resistenza cinese alle prepotenze Europee. Gli Occidentali non occuparono la Cina come avevano fatto con quasi tutto il resto del mondo ma, in effetti, la controllavano spartendola anche in zone di influenza. Gli intellettuali si posero il problema del riscatto della Cina e si divisero in due correnti. Seconda la prima rappresentata fra gli altri da K’ANG YU-WEI bisognava tornare una volta ancora a Confucio ma con un rilettura che in effetti recuperava gli elementi di novità portata dagli Occidentali. Una seconda corrente invece cercava una assimilazione della civiltà occidentale più decisa sul modello che aveva prodotto imponenti risultati in Giappone. Dopo la sconfitta del 1894 contro i Giapponesi parve per un momento che i riformatori potessero avviare la Cina sulla via della modernità. In poco tempo furono emanati un gran numero di decreti innovatori: forse troppo fretta, forse troppi interessi concreti colpiti, forse troppa paura del salto nel nuovo: la riforma fu fermata e molti dei suo sostenitori condannati a morte. Falliva cosi la possibilità di una riforma dall’alto come era avvenuto in Giappone, l’unica via che avrebbe potuto portare la Cina nel XX secolo in modo ordinato e pacifico.
IL NAZIONALISMO POPOLARE
Ma bisogna porsi il problema delle reazioni del cinese “comune” illetterato, del contadino, dell’artigiano. A parte quei piccoli gruppi che erano in diretto contatto con gli Europei come ad esempio i commercianti, gli operai e anche i convertiti al cristianesimo, il cinese comune non poteva assolutamente pensare che gli Europei avessero una civiltà superiore. Certo vedevano le sconfitte, il dilagare del loro potere che si sovrapponeva a quello delle autorità legittime ma non poteva ammettere che questi barbari venuti dal mare potessero essere qualcosa di più di barbari. Non potevano proprio “concepire” l’idea che ci fosse in loro qualcosa da imitare come invece più o meno apertamente ammettevano gli intellettuali. Essi imputavano la difficoltà della Cina a due motivazioni fra loro convergenti Innanzi tutto la colpa era della la dinastia al potere che non era in grado di opporsi agli stranieri per viltà o per incapacità o per calcolo personale. Secondo una esperienza millenaria la Cina decadeva quando la dinastia non era più in grado di mantenere l’ordine interno o di respingere le invasioni degli stranieri. Per di più ci si ricordava ad un tratto che la dinastia era di origine Manciù, quindi straniera e non veramente cinese anche se ormai da secoli si era cinesizzata. In secondo luogo la decadenza era dovuta all’abbandono degli antichi costumi cinesi: non bisognava quindi in qualche modo occidentalizzarsi, come suggerivano gli intellettuali ma bisognava tornare alle origini, non fare alcun compromesso con la barbarie venuta dall’Occidente Si inquadrava quindi la realtà con categorie mentali del passato e non si comprendeva che la causa reale ultima di tutti i mali della Cina e del dominio degli Europei era il suo ritardo scientifico, culturale e politico rispetto all’ Occidente: Invece di cercare di colmare il divario lo si voleva approfondire
CHI ERANO I BOXER
In questo contesto culturale prendono consistenza quelli che in Occidente furono denominati “boxer”. Il movimento era composto da persone umili e ignoranti, in genere di origine contadina ma molti erano battellieri che avevano anche una ragione personale per odiare l’Occidente; con l’avvento delle navi a vapore avevano perso il lavoro. Con connotazioni fortemente tradizionaliste e xenofobe essi si dedicavano alle tradizionali arti marziali fra cui una anche una forma di boxe tradizionale da cui il nome di “boxer” dato ad essi dagli inglesi. Forse però il nome potrebbe derivare anche da denominazioni che facevano riferimento al “pugno” come simbolo di organizzazione unitario: “Società dei pugni armoniosi” oppure, “Pugno della giustizia e della concordia”. I Boxer rifiutavano infatti l’uso di armi da fuoco, preferendo le armi bianche della tradizione. A volte vivevano dando spettacolo delle loro abilità nelle antiche arti marziali, come dei giocolieri da fiera. Indossavano abiti azzurri con una fascia rossa. Si trattava di un movimento spontaneo senza una vera gerarchia e organizzazione centrale, che si diffondeva in modo incontrollabile. In genere i Boxer erano convinti che i loro amuleti li avrebbero resi immuni dalle armi degli Europei e che le loro abilità nella lotta avrebbero loro permesso di aver facilmente ragione degli eserciti Occidentali e fra di loro avevano grande credito personaggi che avevano fama di potere magici. Stranamente nel movimento erano ammesse anche le donne che erano raggruppate in gruppi chiamate “lanterne” di vari colori: rosse per le ragazze, bianche per le sposate, verdi per le vedove, nere per le più anziane. Per un certo periodo le loro attività non preoccuparono più di tanto le autorità e gli Europei: movimenti analoghi erano comuni in Cina. La situazione precipitò quando dalle manifestazioni più o meno folcloristiche i Boxer cominciarono ad assalire le missioni cristiane, cattoliche e protestanti, viste come espressione degli Europei, dei “diavoli stranieri” come essi dicevano. Gli Europei non potevano restare indifferenti a massacri di cinesi convertiti e tanto meno di missionari Europei e così esplose la tragica crisi
LA CORTE IMPERIALE
La situazione della casa imperiale già accusata di essere straniera (Mangiu del 1644) in quel momento era molto complicata. L’impero era retto da una donna che comunemente viene indicata come “imperatrice ” ma, non ammettendo le leggi cinesi che una donna ricoprisse tale carica, era giuridicamente solo la reggente. Veniva denominata “Cixi” che non è un nome ma un appellativo che significa “materna e propizia”. Donna di natali piuttosto modesti era stata sposa (di rango inferiore) dell’imperatore e aveva avuto la fortuna di dargli un erede maschio. Alla morte del marito nel 1861 veniva quindi elevato al trono un bambino di due anni e nominata reggente la madre secondo una procedura non troppo consona alle tradizioni cinesi. Cixi, donna intelligente colta, fu maestra nell’arte dell’intrigo e degli equilibri di corte. Morto l’erede al trono ne fece nominare un altro, bambino, e poté continuare a gestire il governo per moltissimo tempo. Dopo la sconfitta della Cina da parte del Giappone l’imperatore nominale, il giovane Tongzhi prese direttamente le redini del governo, tentò la riforma del governo in senso occidentale e moderno. Allora ci fu una sollevazione della Corte, l’imperatore fu dichiarato folle e confinato in un padiglione fino alla sua morte. Al tempo dei Boxer il prestigio imperiale era pertanto scosso: il popolo vedeva una “donna”, cosa inaudita, governare in un posto che aveva raggiunto con l’intrigo: come meravigliarsi che non fosse in grado di opporsi agli stranieri! Nell’ambito della Corte rispetto ai Boxer vi erano due fazioni opposte. Una era loro favorevole e faceva capo al principe Touan: molti pensano che in fin dei conti il responsabile della crisi fosse proprio questo principe che spinse la massa informe dei Boxer allo scontro diretto con gli Europei. Un’altra fazione faceva capo ai principi Cing ed era molto decisamente avversa ai Boxer. In realtà la situazione della Corte era molto difficile: da una parte vi erano gli Europei che prendevano sempre più il sopravvento creando immenso scontento e rivolta nel paese, dall’altra i Boxer erano una doppia incognita: potevano scatenare la guerra contro i potenti Europei e d’altra parte potevano anche innescare una rivolta contro la Corte e in particolare contro Cixi: I Boxer potevano esser però anche l’unico mezzo per indurre gli Europei a più miti pretese intimorendoli con lo spettro di una rivolta generale e incontrollabile La reggente Cixi pensò di poter gestire questa intricata situazione come aveva gestito tante crisi di palazzo: ma non valutò sufficientemente la reazione europea e la crisi sfuggi completamente al suo controllo
ATTEGGIAMENTO EUROPEO
Attualmente siamo abituati a considerare il colonialismo in base a criteri di ordine economico e a una generale condanna di esso. Ma alla fine dell’800 le opinioni erano ben diverse. Si credeva che l’Europa rappresentasse “la civiltà” e che gli Europei avessero il compito di portarla a tutti gli altri popoli della terra. Come si esprimeva Kipling ” il fardello dell’uomo bianco” era quello di portare fra mille difficoltà e pericoli il progresso al resto del mondo. Nell’800 le guerre in Europa si combattevano secondo un codice umanitario, se mai guerra può poi veramente essere tale. Tuttavia non si infieriva sui civili, si risparmiavano i prigionieri, non si operavano massacri indiscriminati, non si tolleravano saccheggi. Diverso invece era il comportamento degli eserciti Europei negli altri continenti. Si era convinti che trovandosi di fronte a popoli barbari non potevano bastare le regole civili dell’Europa e che occorreva agire in modo spietato, essere più barbari dei barbari. Non si riusciva poi nemmeno a distinguere i gradi di civiltà dei vari popoli: non si facevano grosse differenza Cinesi e Maori: erano tutti popoli a cui portare la civiltà Nella crisi dei Boxer le potenze interessate erano quelle che avevano ottenute delle “concessioni” cioè dei punti di appoggio per i loro interessi e commerci e precisamente furono le seguenti: Inghilterra, Francia, Russia, Germania, Austria-Ungheria, Italia, Stati Uniti e Giappone ciascuna delle quali avevano un suo atteggiamento particolare. La Francia si era impadronita dell’Indocina che era stata un protettorato cinese e inoltre aveva garantito la libertà di culto dei cristiani imponendo un trattato alla Cina dopo che nel 1860 le sue truppe avevano occupato Pechino. Gli inglesi con la guerra dell’oppio erano per primi entrati in Cina e avevano i maggiori interessi in essa. La Russia confinava per migliaia di chilometri con la Cina alla quale aveva strappati ampi territori. La Germania, in verità, non aveva alcuna tradizione coloniale ma da alcuni anni aveva cominciato a crearsi proprie colonia in Africa e soprattutto con il suo impetuoso sviluppo industriale si era sviluppato un nazionalismo esasperato. L’Austria-Ungheria seguiva la Germania secondo una alleanza naturale. L’Italia aveva anche essa cominciato a crearsi delle colonie, aveva aspirazioni nazionalistiche e coloniali ma scarsi mezzi. In una situazione particolare invece si trovavano gli USA: questi per principio erano contrari al colonialismo: tuttavia in seguito alla guerra con la Spagna avevano in governo le Filippine e comunque il loro sviluppo economico li portava inevitabilmente a porsi sulla scena mondiale ma contemporaneamente aveva anche una tradizione isolazionista: si trovavano a disagio fra tutte le altre nazioni con appetiti colonialistici e furono gli unici a rinunciare agli indennizzi e e non pretendere nulla. Caso a parte era il Giappone: esso aveva sconfitto la Cina qualche anno prima, sviluppava una sua politica coloniale molto aggressiva e si affiancava alle potenze europee: per semplicità quando parliamo di “Europei” in questo lavoro intendiamo anche i Giapponesi
LO SCOPPIO DELLA RIVOLTA
Verso la fine del 1899 i Boxer cominciarono ad attaccare le missioni cristiane: nel giugno del 1900 gli Europei preoccupati organizzarono una corpo di spedizione di 2.000 uomini che agli ordini dell’ammiraglio inglese Seymour parti dal porto di Tianjin per Pechino in treno. Contemporaneamente bande di Boxer cominciarono ad affluire minacciose nella capitale e ad attaccare le missioni cristiane. L’imperatrice CIxi tentò allora da una parte di calmare i Boxer e all’altra di convincere gli Occidentali a non fare affluire proprie truppe nella capitale assicurandoli che avrebbe garantito con l’esercito regolare la protezione delle loro rappresentanze. Ma la situazione le sfuggi completamente di mano. I comandanti militari europei persero il contatto telegrafico con le truppe di Seymour, temendo il peggio attaccarono e presero i forti di Tianjin e allora l’esercito regolare cinese reagì attaccandoli e il contingente di Seymour dovette tornare indietro. Cixi allora tentò di convincere i diplomatici delle potenze a lasciare sotto la sua protezione momentaneamente Pechino per rifugiarsi a Tianjin ma questi rifiutarono. Il 20 giugno l’ambasciatore tedesco fu ucciso per strada da una folla inferocita. Gli Europei si chiusero allora nelle loro Legazioni cercando di provvedere direttamente alla propria difesa in attesa di aiuti militari. Le Legazioni si trovavano addossate alla Città Proibita e quindi vicinissime alla sede imperiale ed erano circondate da grosse mura. Vi erano circa 500 soldati e vi si rifugiarono anche circa 3.000 cinesi cristiani. Contro di esse si riversarono le masse dei Boxer ma per ben 55 giorni gli Europei resistettero strenuamente e questa resistenza fu forse l’umiliazione più cocente per i cinesi che non riuscivano nemmeno a sopraffare un minuscolo gruppo di stranieri nella loro stessa capitale. Le bande dei Boxer in effetti non avevano, come abbiamo prima notato, una organizzazione militare: male armati e peggio organizzati attaccavano in massa senza ordine e disciplina e cadeva in massa davanti al fuoco degli Europei troppo tardi accorgendosi che i loro amuleti non li proteggevano dalle pallottole e che tutte le loro arti marziali erano inutili. L’esercito regolare cinese non diede loro nessun supporto di artiglieria. Non riuscirono a sopraffare nemmeno un altro piccolo nucleo di resistenza che si era attestato nella cattedrale cattolica di Pechino. Intanto le potenze organizzavano un corpo di spedizione. Anche da Napoli partiva un reparto di bersaglieri che però giunse troppo tardi. Appena si furono riunite forze sufficienti esse marciarono sulla capitale. Si trattava di circa 16.000 uomini che avanzarono sbaragliando ogni resistenza ed entrarono in Pechino il 14 agosto, giusto in tempo per salvare le Legazioni la cui difesa era ormai agli sgoccioli. In fondo si trattava solo di 16.000 uomini in un paese che contava allora circa 200 milioni di abitanti: eppure i cinesi non potevano nulla contro di essi.
LA REPRESSIONE
L’esercito che entrava in Pechino non era in grado di distinguere responsabilità, amici e nemici: tutti i cinesi erano collettivamente responsabili e dovevano essere puniti severamente. L’imperatore Guglielmo di Germania dichiarava:
“Non fate prigionieri… il nome della Germania dovrà diventare famoso come quello di Attila, che nessun cinese osi più guardare negli occhi un tedesco”. |
I soldati si abbandonarono subito a massacri indiscriminati nei quali si distinsero in particolare i cosacchi russi e i Cepoys dell’esercito inglese. Templi e palazzi furono incendiati senza motivo, cominciarono saccheggi e furono depredate banche e case private. In seguito poi alcuni reparti si recarono nelle province dove si erano avuto persecuzioni anti-cristiane e si abbandonarono a rappresaglie indiscriminate su villaggi locali generalmente del tutto estranei alle vicende. Il terrore si spargeva in tutta la Cina, e con esso il risentimento e l’odio verso i “diavoli stranieri”, verso i loro crimini; per un cinese l’atteggiamento europeo era crudele, umiliante e anche incomprensibile. Dopo 100 anni ancora nella memoria collettiva cinese è rimasto il trauma di quel lontano avvenimento. All’arrivo degli Europei l’imperatrice Cixi era fuggita nell’antica capitale X’ian, si dice, travestita da contadina. Molti funzionari favorevoli ai Boxer ebbero la dignità di suicidarsi secondo le tradizione. Cixi invece, in seguito, respinse ogni responsabilità dell’accaduto e agli Europei conveniva crederle perché avevano bisogno di qualcuno disposto a firmare la umiliante pace. Questa impose una indennità enorme alla Cina che si impegnava a pagarla in 39 anni! Per garantirla le dogane venivano affidate agli Europei che poi avrebbero versato il restante alle casse dello Stato. Gli Europei poi presero in gestioni le attività più redditizie come miniere e foreste. Cixi riprese il potere che gestì assistendo passivamente alla rovina del suo paese fino alla sua morte avvenuta nel 1908. Poco prima aveva nominato come erede un altro bambino, Pu Yi, l’” L’ ultimo imperatore” le cui vicende sono state raccontate nel famoso film di Bertolucci. Dopo appena tre anni nel 1911 il millenario impero cinese cadeva per sempre
PERSECUZIONE DEI CRISTIANI
Esaminiamo un po’ più dettagliatamente cosa avvenne nelle missioni cristiane sparse in Cina. La furia dei Boxer si abbatté su di essi e si calcola in circa 30.000 i cristiano cinesi uccisi e con essi perirono 200 missionari europei. I fatti furono spesso atroci, ci furono torture, furono decapitati perfino bambini, alcuni morirono nel rogo delle loro chiese. Comunque a tutti i cristiani veniva lasciato la possibilità di salvezza: bastava gridare “”Pei chiao!”, (rinuncio alla religione) per salvarsi ma pochi lo fecero. Non è da pensare però che i cristiani restassero passivi: in molte località si organizzarono in difesa armata e resistettero alle disordinate bande dei Boxer fino alla fine della rivolta. Il 1 ottobre 2000 il papa ha dichiarati “beati” 120 cinesi morti per la fede molti dei quali (ma non tutti, come spesso si dice), durante la rivolta dei Boxer. Naturalmente sono stati dichiarati ” beati” solo quelli per i quali si è potuto rintracciare una documentazione sulla effettiva scelta cosciente del martirio, di quelli che potevano salvarsi con l’apostasia ma preferirono la morte. Vi è stata una violenta reazione da parte del governo cinese che ha allontanata per il momento ogni tentativo di regolarizzazione fra Vaticano e Cina. Fra l’altro il giorno era stato scelto al Vaticano per la ricorrenza della festività delle missioni ma esso è anche l’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. I dirigenti cinesi hanno affermato che le persone beatificate erano colpevoli di crimini comuni, di traffico d’oppio, di furto, di stupro addirittura. Noi non crediamo che il Vaticano abbia proclamati dei beati con leggerezza e non ci risulta che le accuse cinesi siano documentate. Ma il vero problema è chiaramente un altro: quei cristiani apparvero cento anni fa e tuttora appaiono ai cinesi come la quinta colonna del colonialismo europeo. In Cina vi è sempre stata tolleranza religiosa ed essa non ha conosciuto le tragiche lotte religiose come l’Europa. Ma la tolleranza verso i cristiani era stata sancita anche con un trattato imposto nel 1860 dopo che i Francesi avevano incendiato Pechino, i cristiani erano garantiti dagli Europei. Durante tutta la crisi essi furono oggettivamente dalla parte degli stranieri. E dopo cento anni nulla pare essere stato dimenticato. I missionari era spinti oltre che da zelo religioso da spirito caritativo, dalla volontà eroica di fare del bene alle popolazioni locali, niente in comune con quei connazionali che avevano imposto con la guerra alla Cina l’uso dell’oppio, che cercavano di impadronirsi di tutto ciò che potevano: ma i cinesi in generale erano in grado ci comprenderlo? Come non accomunare tutti gli stranieri in un unico stereotipo? Quando parliamo di popoli e civiltà noi operiamo mentalmente delle semplificazioni che poi spesso diventano pericolose: non esiste un solo “tipo” eterno e immutabile di cinese: esistono cinesi buoni e cattivi, religiosi e atei, tradizionalisti e innovatori cosi come per gli Europei e per qualsiasi altra civiltà e popolo. Ma è difficile capirlo, è più facile, più naturale diremmo, crearsi uno stereotipo. Cosi per i Boxer tutti gli Europei in fondo erano dei profittatori, per i soldati della repressione in ogni cinese si nascondeva un Boxer
DUE PUNTI DI VISTA
In Europa la repressione della rivolta dei Boxer fu esaltato come un fatto glorioso, giusto anzi doveroso. Si era intervenuti in difesa di Cristiani perseguitati e orribilmente massacrati, si erano difese le ambasciate attaccate contro ogni diritto delle genti, si erano puniti gli autori di misfatti. E poi si era mostrato un gran valore militare: pochi soldati avevano strenuamente difeso le ambasciate da folle strabocchevoli, il piccolo corpo di spedizione militare aveva piegato l’immensa Cina. Dei saccheggi, dei massacri e delle ruberie operate dagli Europei poco si seppe e comunque sono cose che accadono,” effetti collaterali” diremmo modernamente, di ogni spedizione militare. In sintesi: si era difesa la civiltà dalla barbarie mostrando nel contempo gran valore militare. In Cina invece la cosa apparve sotto luce ben diversa: i “diavoli stranieri” avevano profittato della debolezza e complicità di una Corte indegna, guidata da una usurpatrice corrotta, avevano massacrato innocenti, avevano incendiato templi e capolavori architettonici, saccheggiato e rubato dovunque e si erano sopratutto installati per appropriarsi delle ricchezze della Cina. I cristiani erano traditori, alleati con i nemici e la loro persecuzione fatti episodici presi a pretesto dagli stranieri, i Boxer erano patrioti eroici che si erano immolati per la patria, Ognuno guardava a fatti diversi o meglio dava agli stessi fatti diverso peso e proporzione come sempre avviene nei contrasti politici e a oltre cento anni pare che i due punti di vista non si siano poi tanto avvicinati. Noi non ci poniamo il problema da che parte fosse la regione e in quale misura. La storia non è giudizio morale ma comprensione dei fatti. Crediamo che in effetti gli Europei non potevano agire sostanzialmente in modo diverso da come si comportarono: non potevano non protestare di fronte alle persecuzioni contro cristiani né tanto meno non intervenire in favore delle loro ambasciate attaccate né soprattutto rinunciare ai grandi interessi economici che avevano, o meglio, speravano di avere in Cina. La Corte ebbe la maggiore responsabilità sottovalutando la situazione: Cixi credette di poter gestire la crisi come fosse un intrigo di Palazzo senza capire che il destino della Cina non si giocava più nell’ambito della Corte. Ma la vera e profonda causa di questa e delle tante altre crisi che la precedettero e la seguirono fu un altra: la incapacità della classe dirigente cinese di avviare il paese sulla via della modernizzazione come era avvenuto negli stessi anni in Giappone. Il Giappone si apri al moderno e da “potenziale” colonia divenne un paese colonialista, entrò nel club delle grandi, sconfisse anche uno stato europeo, la Russia, nel 1905. La Cina rifiutò la modernizzazione e solo 16.000 armati Europei la misero in ginocchio
BOXER E FONDAMENTALISMO ISLAMICO
A prima vista nulla accomuna Boxer e fondamentalismo islamico. Effettivamente vi sono differenze fondamentali prima fra i tutti la ispirazione principale: lo zelo religioso che muove il secondo ma pare del tutto assente nei primi. Tuttavia le analogie sono pure molte. La prima e fondamentale ci sembra questa: ambedue i movimenti vedono come nemici e combattono insieme la “modernizzazione” e gli Europei. Ritengono cioè che la lotta al predominio europeo si operi soprattutto rigettando la loro civiltà. Essi credono che il “predominio” europeo nasca da chissà quali malvagità, da quali complotti, quali complicità e viltà delle loro autorità: pare che non si rendano conto che è la “modernizzazione ” a rendere la civiltà europea vincente nel confronto. I fondamentalisti islamici credono, come i Boxer che tornare alle origini, sia la salvezza. Si vuole tornare a un Islam di mille anni fa ma dovunque ciò è stato tentato e nella misura in cui è stato realizzato non ci sono stati che disastri: crisi economiche, guerre disastrose in Iran, Afganistan, Algeria, Sudan. A prescindere dallo scontro con gli Occidentali il regime del Mullah Omar in Afganistan certo non portò la felicità a Cabul ma solo oppressione, miseria e guerre I Boxer come i fondamentalisti riducono a entità demoniache gli Europei: I “diavoli stranieri”, dicevano i Boxer, “il grande satana” diceva Khomeini: ma gli Europei non sono peggiori o migliori degli altri e nemmeno più intelligenti: hanno solo raggiunto un progresso tecnico e politico che ha dato loro prosperità e libertà L’unico modo veramente efficace per sottrarsi al loro predominio non è combatterli ma imitarli, seguire il loro sviluppo. I Boxer si illusero di vincere gli Europei con il coraggio, con arti marziali e sciabole tradizionali e morirono a migliaia senza quasi infliggere perdite al nemico, nemmeno riuscirono ad eliminarli dalla loro stessa capitale. I fondamentalisti alla Bin Laden pensano di vincere militarmente gli Occidentali con il coraggio e i kamikaze (Shaid, martiri). Riescono sì a fare stragi ma poche migliaia di americani hanno occupato Afghanistan e l’Iraq senza quasi nessuna perdita. Personaggi come Saddam Hussein, Khomeini e Bin Laden non potranno mai far rinascere i paesi islamici come non potevano i cortigiani dell’imperatrice Cixi difendere la Cina: ci vollero persone che guardavano all’occidente come Sun yat sen, Ciang kaii schek, Mao tze tung. I fondamentalisti e i Boxer nascono dallo stesso senso di smarrimento di “stupore” di fronte al crollo dell’illusione di essere la “civiltà superiore” e non sembrano comprendere il senso della storia. La differenza preoccupante è che i Boxer avevano solo sciabole: i fondamentalisti potrebbero procurarsi l’atomica e altre armi di sterminio di massa.
LO SHAOLIN


- STORIA E GEOGRAFIA 1. Collocazione geografica
Il tempio di Shaolin dista 70 km a sud-ovest da Zhengzhan, capoluogo della provincia dell’Henan in Cina, ed è luogo d’origine del Chan (Zen), scuola principale del Buddismo cinese e dello Shaolinwushu, la più famosa delle arti marziali cinesi. Situato ai piedi del monte Songshan con dietro il picco Wuru e di fronte il monte Shaoshi, è completamente riparato dalle foreste con all’interno antichi piani che si elevano fino al cielo. 2. Origini del tempio Fu costruito nel XIX anno dell’imperatore Xiaowen dalla dinastia Wei del nord (485 d.C.) con il proposito di ospitare un eminente monaco indiano di nome Batuo. Dopo 32 anni un altro monaco indiano, Bodhidarma (in cinese Ta Mo) si recò al tempio di Shaolin dove rimase in meditazione per 3 anni nella grotta che sta sotto la cima Wuru. Quando l’azione di ricerca fu completata e Bodhidarma uscì dalla grotta, lo Zen vide la luce. Divenuti suoi discepoli i monaci del Tempio sedevano per lungo tempo in meditazione (ovvero la via essenziale verso l’illuminazione) divenendo sempre più deboli nel corpo, facile preda del sonno e di aggressioni esterne. Per ovviare a questo, imitarono i movimenti degli animali e le attività della gente creando così un’arte marziale per muovere ossa e muscoli e rafforzare la salute. Poiché i monaci, di generazione in generazione non smisero mai di allenarsi, raggiunsero una tecnica marziale molto elevata coltivando abilità straordinarie, incredibili agli occhi della gente comune. Inoltre grazie all’ambiente che è tutt’ora tra i più pittoreschi in Cina, i monaci potevano studiare quello che chiamavano “Kung Fu di Shaolin” sottoponendolo a continue ricerche. Allievi intelligenti e ben disciplinati avevano molto tempo per imparare e potevano giovarsi dell’esperienza dei maestri più abili. I loro progressi si accumulavano a quelli della generazione successiva di modo che i maestri potessero aggiungere nuove tecniche e nuove abilità al loro repertorio che si ampliò a tal punto che divenne impossibile apprenderlo per intero nel corso di una vita.
- IL KUNG FU DI SHAOLIN 4. Poteva andare chiunque a studiare il Kung Fu di Shaolin? I racconti dell’epoca dicono che fosse tutt’altro che facile essere ammessi a studiare a Shaolin Szu e che, una volta ammesso, il novizio veniva sottoposto a prove massacranti che avrebbero scoraggiato chiunque, allo scopo di constatare se la sua personalità fosse idonea. In seguito a ciò gli veniva rasata la testa sulla quale un monaco anziano, con un’apposita cerimonia, applicava delle bruciature che avrebbero suggellato la scelta del monaco. A quei tempi era pressoché impossibile entrare o uscire dal monastero senza l’approvazione dei superiori, perché le vie d’accesso erano zeppe di trappole mortali; il monaco Shaolin poteva dunque lasciare il monastero solo quando i maestri l’avessero giudicato pronto. A questo punto, sempre secondo le fonti dell’epoca, egli doveva superare un’ultima prova, la più terribile: le 36 camere. Il monaco doveva affrontare 36 confratelli che avrebbero combattuto senza esclusione di colpi, dimostrando la propria abilità e preparazione. In seguito furono accettati anche allievi laici. 5. Gli stili di imitazione come tecniche di combattimento Gli stili di imitazione degli animali sono l’originale fonte di ispirazione dello Shaolin wushu ed ancora al giorno d’oggi giocano un ruolo molto importante. Come dice il nome stesso, gli stili di imitazione sono delle tecniche di combattimento create imitando gli animali o gli insetti. Dai possenti leopardi o tigri ai piccolissimi grilli, formiche o mantidi, tutte le creature viventi sono equipaggiate con abilità speciali e uniche per la loro sopravvivenza. Senza dubbio l’essere umano è la specie più intelligente, tuttavia gli animali possiedono punti di forza che mancano agli uomini. Il monte Songshan ha fornito uno straordinario ambiente naturale d’ispirazione per tutte le creature viventi. Per esempio lo stile della scimmia è ingegnosamente caratterizzato dai numerosi cambiamenti nella forma e dalla difesa come mezzo di attacco; lo stile della gru è strutturato secondo movimenti agili ed aggraziati mentre lo stile del drago inizia sempre con attacchi preventivi. E’ molto particolare per la trascendenza spirituale intesa nel senso che, mentre si sta seduti in meditazione Zen, si dovrebbe raggiungere uno stato ideale di assenza di ego e quando si imita il drago si deve pensare a se stessi come un vero drago e quando si pratica lo stile della gru si deve diventare una vera gru. Nel corso di ogni movimento si dovrebbe raggiungere una profonda comprensione del forte desiderio di sopravvivenza degli animali che si imitano. E’ particolare anche l’imitazione pittoresca perché dà molta importanza alla somiglianza dell’aspetto espressivo del volto e dei movimenti, fondendo mente e corpo con l’animale che si rappresenta. Per mezzo di ciò si può raggiungere l’identità spirituale con ciò che si imita. 6. Il completo sviluppo della mente “Il completo sviluppo della mente può essere raggiunto soltanto quando il corpo ha imparato la disciplina e per disciplinare il corpo i nostri antenati ci hanno insegnato ad imitare tutte le creature viventi: dalla gru bianca impariamo la grazia ed anche l’autocontrollo; il serpente ci insegna l’abilità e la resistenza ritmica; la mantide religiosa ci insegna la velocità e la pazienza; dalla tigre impariamo la tenacia e limpazienza e dal drago impariamo a cavalcare il vento. Tutte le creature, le nobili e le ignobili, sono coscienti di se stesse. Se abbiamo desiderio di imparare, tutte ci insegneranno le loro virtù. Tra la fatale bellezza della mantide religiosa ed il fuoco e la passione dei drago dei vento non c’è contraddizione. Tra la silenziosa agilità del serpente e gli artigli dell’aquila c’è soltanto armonia e dato che i due elementi della natura non sono mai in contrasto tra loro, quando comprendiamo l’essenza della natura noi eliminiamo i contrasti nel nostro essere e scopriamo l’armonia tra il corpo e la mente che è in accordo con l’essenza dell’universo. Quale è il metodo migliore per opporsi alla forza? Dato che pace e tranquillità sono da preferire alla vittoria, allora è molto semplice la scelta da operare: fuggi immediatamente, comprendi la realtà della natura, vedrai che nessuna forza umana potrà colpirti; non tentare di opporti alla forza affrontandola, evitala. Non c’è bisogno di fermare la forza, è più facile farle cambiare direzione. Impara i metodi per conservare, non quelli per distruggere; evita piuttosto che bloccare; blocca piuttosto che ferire; ferisci piuttosto che storpiare; storpia piuttosto che uccidere; poiché ogni vita è preziosa. In verità esistono due tipi di forze: la forza esteriore che è visibile ma svanisce con l’età e soccombe alle malattie; l’altro genere è il QI (chi), la forza interiore, tutti gli uomini la possiedono, ma è infinitamente più difficile da sviluppare.” 7. La “fine” dello Shaolin Per assistere alla vera e propria divisione tra stili interni ed esterni, bisogna aspettare la dinastia Ching (1644-1911), altro punto importantissimo della storia del Kung-Fu: in questo periodo infatti la Cina fu dominata dai manchu, una popolazione barbara del nord che strappò con la forza il trono all’ultimo imperatore Ming. Da subito sorsero focolai di rivolta e resistenza allo straniero. Gli ordini religiosi si schierarono in prima fila e i monasteri divennero rifugi e centri di addestramento dei rivoltosi. Ma tutto questo non sfuggì all’esercito invasore, che proibì, pena la morte, la pratica di Arti Marziali e l’uso di armi, e nel 1736 distrusse il monastero di Shaolin. I monaci scampati si dispersero per tutta la Cina, dandosi ad addestrare il popolo in segreto in vista della ribellione contro i manchu. I principali effetti della diaspora dei monaci furono due: la diffusione tra la popolazione civile delle Arti Marziali che nei secoli precedenti erano appannaggio esclusivo di individui scelti e la dispersione dei monaci su territorio vastissimo, determinando un’ulteriore frammentazione di conoscenze e stili. Contemporaneamente, vi fu un rigoglioso fiorire di società segrete nate per opporsi ai dominatori e prendersi cura del popolo oppresso… queste furono le precorritrici delle moderne triadi, degenerate allo status di organizzazioni criminali. Comunque, molti stili del nord poterono raggiungere la parte meridionale della Cina; su quest’argomento c’è una storia diffusa negli ambienti del Kung-Fu, secondo la quale i monaci scampati alla distruzione di Shaolin Szu si rifugiarono nella regione del Fuchien (Cina del sud) e lì costruirono un secondo tempio (secondo alcuni scrittori dell’epoca, il tempio Shaolin nel Fuchien esisteva già, così come altri templi omonimi appartenenti allo stesso ordine), dove crearono la scuola Shaolin del sud, che influenzò la formazione di alcuni stili del tempo. Non molti anni dopo, però, il tempio del Fuchien seguì la sorte del primo e riuscirono a sopravvivere solo cinque monaci, che a loro volta diedero vita a nuovi stili di Shaolin del sud. Del resto, proprio durante la nefanda dinastia Ching emersero alla ribalta della storia molti stili tuttora conosciuti come il Tai Chi Ch’uan e il Pa Kua Ch’uan per la scuola interna, e il Pak Hok, il Pak Mei e il Wing Chun per la scuola esterna meridionale. Il Kung Fu di Shaolin non smise mai di esistere. Tanto è vero che, col passare del tempo si diffuse un po’ in tutto il mondo soprattutto con l’avvento del cinema e della televisione. Con essi infatti vennero trasmessi i film sul Kung Fu con Bruce Lee (Li Shao Long, Giovane Drago Li, il suo vero nome), che furono il vero grande boom dell’arte marziale in Italia.
Fonte: Alberto De Marco, Andrea Franceschini, Stefano Simoncello.
IL DOJO

Dojo 道場 ” luogo percorso “. In origine fu un termine buddista usato per riferirsi a un luogo in cui i monaci buddisti si riunivano per la pratica. Poiché le arti marziali hanno assorbito attivamente le migliori realtà della cultura giapponese durante il loro sviluppo, hanno assorbito anche questa esperienza. Anche il luogo dell’allenamento – la pratica delle arti marziali – iniziò a chiamarsi dojo. Nel significato di “un luogo in cui vengono eseguiti i rituali buddisti e i monaci meditano”, la parola “dojo” era già usata in testi antichi come “Fuso ryakki” (“Una breve storia del Giappone”, fine XI – inizio XII secolo) e “Tsurezuregusa” (“Appunti dalla noia”, XIV secolo). Fu solo nel periodo Edo che la parola “dojo” fu usata per la prima volta per riferirsi a una sala di arti marziali. Tuttavia, più spesso questi venivano chiamati “keikojo” – “luogo di allenamento”, “embujo” – “luogo di dimostrazione di arti marziali”, “shinanjo” – “luogo di ricezione di istruzioni nell’arte marziale” o “bukan” – “casa dell’arte marziale”. Il più comune di tutti questi nomi era “keikojo”. Ai vecchi tempi, i keikojo erano solitamente piccole stanze con un piccolo numero di finestre situate proprio sotto il soffitto, in cui regnava costantemente il crepuscolo. Ciò era dovuto al fatto che nel keikojo era necessario creare un’atmosfera che favorisse l’educazione dell’individuo (ningen shuyo). Inoltre, molte caratteristiche della pratica delle arti marziali erano determinate dal predominio del principio del mongai fushutsu: le lettere. ” Non portare fuori dal cancello “, che richiedeva di mantenere segrete tutte le tecniche e i metodi di allenamento, in relazione a ciò, le finestre in keikojo erano realizzate a un’altezza tale che gli estranei non potessero spiare l’allenamento che si svolgeva all’interno. Il dojo è un luogo in cui ci discipliniamo e ci miglioriamo per diventare migliori. In questo senso il dojo può essere ovunque. E la tua casa può essere un dojo. Anche una strada può essere un dojo. Se ti alleni in una palestra e chiami la palestra un dojo, devi rispettarla. Pulisci la palestra dopo l’allenamento perché fa parte del tuo allenamento. Il dojo non è una stanza, il dojo sono le persone: il tuo istruttore, i tuoi compagni di squadra. Dojo è tutti i tuoi predecessori sul Sentiero della Scuola. Dai loro rispetto. Inchinati al dojo mentre entri. Inchinati al dojo mentre esci. Esprimi il tuo apprezzamento e rispetto per il dojo in tutti i suoi sensi. Per una migliore comprensione del fenomeno del dojo, alcune spiegazioni. Il dojo classico è costruito secondo i canoni di fusui 風水 (feng shui cinese) la scienza della corretta interazione con la natura e lo spazio). Il lato nord del dojo è chiamato kamiza 上座 “primo posto” o “posto d’onore”. Questa è l’area principale del dojo riservata agli insegnanti e agli ospiti d’onore. Spesso nell’area del posto d’onore è presente una piattaforma bassa su cui è possibile posizionare una composizione floreale (bonsai), una spada o un tamburo. Un rotolo calligrafico (kakejiku o kakemono) o un ritratto del fondatore della scuola di arti marziali seguita nel dojo è solitamente appeso alla parete dietro la pedana. A volte la bandiera nazionale del Giappone è posta nel “posto d’onore”, e talvolta gli emblemi di questa arte marziale. In una parola, in diversi dojo, il “posto d’onore” è decorato in modo diverso. A volte l’intera decorazione della parte settentrionale della sala è ridotta a un piccolo altare shintoista tradizionale, solitamente situato in un’alta nicchia del muro. Il ruolo simbolico del nord come luogo di forza, potere e anzianità è noto a molte culture. Questo si riflette anche nella lingua. Esiste una tale frase epistolare 硯北 “kenboku” – “lato settentrionale del calamaio”. Ai vecchi tempi, era consuetudine che i gentiluomini di alto rango scrivessero e leggessero, volgendo il viso a sud. Pertanto, “il lato nord del calamaio” significa “dietro la schiena” e ha una modesta implicazione: “Se ti degni anche solo di leggere (la mia lettera), allora gettala indietro”. Di conseguenza, il “luogo inferiore” – shimoza 下座 si trova di fronte – nella parte meridionale del dojo. Questo luogo è associato alla giovinezza, alla crescita, alle speranze e al futuro. Un vecchio proverbio cinese dice: Nessun insegnamento viene dal sud. Ha molti significati, ma uno dei significati principali è che gli studenti seduti sul lato sud non dovrebbero parlare tra loro su argomenti astratti e insegnarsi a vicenda durante le lezioni. Ci sono altri due lati del dojo. A est, dove sorge il sole, c’è il “lato superiore” del joseki. I visitatori si siedono qui, così come un insegnante, nel caso in cui un ospite d’onore abbia preso il kamiza. Se il dojo è pieno, gli studenti più grandi si siedono nella “parte superiore”. Durante le prove che si svolgono nel dojo, gli esaminatori si trovano solitamente sulla parete est e gli esaminandi sulla parete ovest. L’ovest è il “lato inferiore” dello shimoseki. Solitamente quest’area del dojo viene lasciata vuota. Nei tempi antichi, l’ovest era visto come un luogo di notte e oscurità. In molte culture, era nell’ovest che si trovava il mondo sotterraneo. Queste associazioni sono associate all’immagine poetica del tramonto, la vigilia della notte. La relazione tra kamiza (nord) e shimoza (sud) è la stessa in tutti i dojo, ma le funzioni delle altre direzioni possono variare a seconda del progetto di una particolare sala, delle sue dimensioni e della storia della fondazione. In generale, i punti cardinali sono solo simboli e, in pratica, il kamiza – il punto di riferimento nell’orientamento del dojo – può essere posizionato semplicemente in un punto conveniente della sala che non sia occupato da un campo di allenamento o da un tatami. C’è anche una tradizione di chiamare la parte principale del dojo – shomen 正面 shōmen Il termine kamiza è talvolta confuso con l’altro termine kamidana 神棚 (letteralmente mensola/nicchia per kami/divinità/spiriti). Questo è un altare domestico, un modello in miniatura di un santuario shintoista. Dojo è dove studi, dove sei sul Sentiero. Il dojo non è solo e non tanto un luogo quanto situazioni di apprendimento e le persone che le creano, imparano da esse e si sviluppano. La vita ci dà abbastanza di questa esperienza, diamoci più opportunità di notarla e usarla.
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ZANSHIN

Zanshin 残心
La parola è composta da due Kanji. Il primo significa “rimanere” e il secondo – “spirito”. Pertanto, la traduzione letterale dei due Kanji significa: “spirito che rimane”. In effetti, la traduzione è così figurativa da lasciare ampio spazio a un’ampia varietà di interpretazioni. La situazione è complicata dal fatto che alcuni caratteri in giapponese hanno molti significati, e quindi il primo carattere “zan” potrebbe benissimo significare perfezione, concentrazione o addirittura crudeltà. In altre parole, la frase assomiglia soprattutto a un idioma, una frase caratteristica di una particolare lingua, il cui significato non coincide con il significato dei suoi elementi costitutivi e non viene trasmessa in altre parole. Quindi, cosa significa “zanshin” può essere compreso, ma è estremamente difficile da spiegare correttamente. Questo è un concetto abbastanza comune nelle arti marziali, che implica uno stato d’animo che consente, dopo aver completato un movimento, di iniziare con calma e controllo il successivo. In questo stato, una persona è completamente concentrata su tutto ciò che sta accadendo in quel momento. Possiamo dire che questo è uno stato di completa consapevolezza, che implica il controllo completo dello spazio intorno a te, degli avversari e la prontezza a rispondere a qualsiasi attacco. Ad esempio, nel kyudo (l’arte del tiro con l’arco), zanshin significa una postura caratteristica dopo che la freccia è già stata rilasciata. Questa posizione del corpo, per così dire, sottolinea la necessità di mantenere uno stato d’animo psicologico speciale prima, durante e dopo l’esercizio. La logica di mantenere questo atteggiamento dopo il tiro è chiara. Chissà se hai centrato o meno il bersaglio. Meglio stare sempre vigili in modo che in seguito, ad esempio, non scoprire con sorpresa che non c’era un avversario, nel kendo, zanshin è uno stato mentale in cui viene mantenuta la prontezza mentale e fisica a rispondere a qualsiasi cambiamento nella situazione, come un attacco improvviso da parte di un avversario. Inoltre, tale stato dovrebbe essere mantenuto anche quando una persona ritorna in kamae dopo un attacco riuscito. Quando una persona ritorna in kamae dopo un attacco riuscito… Si ritiene anche che questa sia una componente essenziale di una buona tecnica.
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MAAI - le distanze nelle arti marziali

MAAI
Maai 間合いMa è “spazio”, “intervallo”. Au 合う come verbo significa adattare, abbinare, concordare. Il concetto di ma in generale è una delle caratteristiche della cultura giapponese. Nella pittura, ma è usato come uno spazio aperto e non riempito, in contrasto con la tradizione pittorica occidentale, che richiedeva che l’intera tela fosse riempita di dettagli. Nella calligrafia, la posizione nello spazio è ancora più importante, e il marchio di un vero maestro è la capacità di rappresentare parti di un personaggio in proporzione e posizionarlo nel posto giusto rispetto ad altri caratteri. Ma appare anche in musica, danza, teatro, commedia e letteratura. Lo spettatore e lettore è un coautore: lui stesso deve entrare nello spazio di ma tra ogni parola e suono, comprendendo l’intenzione del creatore dell’opera e creandola di nuovo con lui. Nelle arti marziali, maai significa essere nel posto giusto al momento giusto. “Il principiante tratta la distanza tra sé e il nemico come qualcosa che semplicemente esiste”. Uno stratega esperto, invece, vede la distanza come uno strumento (forse il più prezioso) dal suo arsenale di armi e lo utilizza costantemente. L’uso corretto di maai diventa evidente quando osservi uno studente più giovane e uno studente più anziano che si esercitano insieme. Quando il più anziano attacca, il più giovane salta via, schivando il colpo per un piede o più. Ma quando il più giovane attacca, il più anziano sposta delicatamente il corpo di lato, schivando l’attacco solo di una frazione di pollice. Questo gli lascia l’occasione perfetta per un rapido contrattacco, che a sua volta fa sì che l’apprendista più giovane salti indietro ancora più freneticamente. Il senso della distanza non è innato, si acquisisce per tentativi ed errori. Il praticante deve, attraverso un lungo e faticoso addestramento, sviluppare in se stesso una consapevolezza istintiva dei limiti dell’uso di tutti i tipi delle sue armi. Deve fare lo stesso per tutte le armi che probabilmente incontrerà…”
Chika Ma
Chika ma si riferisce a un piccolo spazio per l’ingaggio, significa che l’avversario è già a corta distanza. È la distanza in cui due contendenti sono abbastanza vicini da colpirsi senza doversi spostare. Talvolta misurata come circa tre “piedi” ma ovviamente potrebbe essere una distanza maggiore o minore. A causa di questa breve distanza ogni tecnica potrebbe raggiungere rapidamente l’avversario lasciando poco tempo per reagire. Ad esempio in una situazione potenzialmente pericolosa (un facinoroso in strada, sul ring o sul tatami), a meno che il livello di competenza nelle arti marziali non sia alto e si voglia strategicamente quella distanza, meglio non essere entro Chika Ma. Qualche passo indietro potrebbero darci una distanza di sicurezza ed una possibilità di reazione in caso di attacco improvviso di un energumeno.
Itto Ma
Itto ma si riferisce a una distanza intermedia, significa che i contendenti hanno bisogno di almeno un passo per essere nel raggio d’azione. Non esiste una distanza strettamente definita tuttavia in questo intervallo spazio tempo, una avversario non è abbastanza vicino da essere colpito senza fare un passo e quindi è necessario avanzare per poter essere in un raggio d’azione. In questa distanza oltre ai predetti fattori subentra anche il parametro tipo di scontro nel senso che varia tra uno scontro a mani nude e uno in cui si usano armi (es. la spada o il bastone). La distanza è diversa anche in base alla variabile fisicità della persona, alta o bassa per ovvie questioni di arti lunghi o corti. La chiave è sempre la necessità di far coincidere i diversi fattori che permettono di arrivare ad una certa distanza da consentire un efficace un attacco. Potremmo idealmente pensare in un incontro a mani nude che per determinare l’Itto ma si possa considerare la portata massima di tutte le armi (non da lancio o con polvere da sparo) che una persona può usare per colpirti senza la necessità di intervenire. Questa potrebbe essere considerata in uno scontro a mani nude, la distanza minima dall’avversario per essere definita distanza da Itto ma. Con la pratica e lo sparring, si ottiene un senso innato per questa distanza, ci si posiziona naturalmente in Itto ma, ma in modo che lo sparring partner debba impegnarsi e spostarsi per entrare nel raggio d’azione. Questo movimento del corpo suggerisce come e dove l’avversario potrebbe tentare l’attacco. Questo fornisce un tempo (abbastanza limitato) per considerare come desideri rispondere.
To Ma
Toma si riferisce a una distanza relativamente lunga. Potrebbe essere di venti piedi o un miglio. Implica che l’avversario debba percorrere una distanza significativa prima di entrare nel raggio di azione di un eventuale attacco. In altre parole, un avversario deve fare almeno due passi per attaccare.
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KIMONO-KARATEGI-JUDOGI-KENDOGI




KIMONO
Spesso si sente che gli abiti per praticare le arti marziali giapponesi sono chiamati “kimono”. Questo non è del tutto corretto. Kimono着物 (letteralmente cosa indossata) nel vecchio Giappone significava qualsiasi tipo di abbigliamento. Ma alla fine del 19° secolo, c’è stato un aumento del numero di persone in Giappone che hanno iniziato a indossare abiti in stile occidentale. La differenza tra il costume occidentale e quello giapponese ha costretto i giapponesi a distinguere quest’ultimo dal concetto generale di “kimono”. Di conseguenza, nel giapponese moderno, ” kimono ” ha assunto due significati. In senso lato, questo è un termine generale per qualsiasi abbigliamento e, in senso stretto, è una specie di costume nazionale. Il kimono è una veste a forma di T, la cui lunghezza può variare. Chiusura con cintura obi 帯 intorno alla vita e, se necessario, lacci aggiuntivi. Sia il kimono da donna che da uomo sono indossati con un involucro a destra. Al funerale, il corpo è vestito con un kimono con un velo a sinistra, perché secondo la credenza “Il mondo dopo la morte è opposto al nostro mondo”. Una caratteristica del kimono sono le maniche sode (袖), che di solito sono molto più larghe dello spessore del braccio. Sono a forma di borsa. E l’abbigliamento per le arti marziali si chiama keikogi稽古着 (vestiti per Keiko), 道着 dogi (vestiti per la Via), o semplicemente gi 着 (vestiti). Tieni presente che questo è lo stesso carattere gi \ ki coinvolto nella formazione della parola kimono. Spesso puoi trovare il nome dell’abbigliamento in base al tipo di arte marziale per cui è stato creato appositamente, ad esempio, judogi – 柔道着, kendogi – 剣道着, karategi – 空手着. A volte viene usato un altro carattere con lo stesso significato koromo衣. Va notato che l’abbigliamento keikogi è apparso relativamente tardi, nella seconda metà del XIX secolo. Molte fonti attribuiscono a Jigoro Kano non solo l’invenzione del keikogi, ma un miglioramento significativo e portandolo quasi alla forma che conosciamo oggi. Lo storico delle arti marziali Dave Lowry cita la versione secondo cui Kano si è ispirato alle spesse giacche dei vigili del fuoco giapponesi – hanten. È anche interessante che fino agli anni ’20 il karate di Okinawa fosse praticato con abiti di tutti i giorni, e spesso solo in pantaloni corti e con il torso nudo. E solo quando il fondatore del karate moderno Funakoshi Gichin aveva bisogno di allestire combattenti per esibizioni dimostrative di fronte a persone influenti, costruirono frettolosamente per loro qualcosa di simile al già diffuso judogi. L’unica cosa che hanno notevolmente alleggerito la giacca, perché la tecnica non implicava un tale numero di catture e lanci. La giacca keikogi si chiama uwagi上着 (letteralmente capospalla). La giacca è realizzata in materiale con tessitura di due, tre fili. La treccia spessa e soffice assorbe bene il sudore e “respira”. Inoltre, questo tipo di gi è resistente e allo stesso tempo morbido e piacevole da usare. Una trama più fitta mantiene bene la sua forma e ricorda al praticante la postura, ma può essere meno traspirante e assorbire il sudore. I punti soggetti all’impatto più intenso (spalle, giromanica, ginocchia) sono rinforzati con speciali inserti che aumentano la forza del keikogi. Ci sono alcune sfumature nel taglio del keikogi per diversi tipi di arti marziali. Le maniche della giacca per il judo sono più larghe e più lunghe rispetto all’aikido. Questo perché la pratica del judo utilizza numerose prese gi, mentre l’aikido impara molte tecniche dalle prese del polso. Gi per kendo e kenjutsu ha maniche ancora più corte. I pantaloni si chiamano Shitagi 下着 o Shitabaki 下穿き lit. Biancheria intima e nel senso di essere agganciato sotto qualcosa.
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IL VENTAGLIO





IL VENTAGLIO
Con la parola “FAN” intendiamo un oggetto pieghevole. Un tale ventaglio, portato in Europa nel XVII secolo, aveva lo scopo di salvare le donne della moda dall’afa teatrale. In russo, la parola “fan” fu registrata per la prima volta nel 1724. Tuttavia, il ventaglio originale (cinese) non si piegava. Era un foglio di carta, di seta, incollato in una cornice rotonda di bambù. Sembrava una racchetta da ping-pong. La prima forma di tale fan. In Cina, un tale ventaglio (uchiwa) è noto da almeno 2000 anni. In Giappone, il ventaglio apparve non più tardi dell’VIII secolo, e ne esistono prove scritte: nel 762, a un vecchio fatiscente, come favore speciale, fu permesso di venire in tribunale con un bastone e un ventaglio. Oltre a questi scopi, un ventaglio con manico in metallo e bordo in metallo (mentre la lama stessa era di legno verniciato) veniva utilizzato dai comandanti samurai per dirigere le battaglie. Attualmente, tali fan sono usati dai giudici nel sumo wrestling – con un fan, il giudice indica il vincitore del combattimento. L’epopea medievale “The Tale of the House of Taira” racconta come il potente capo militare Taira Kiyomori, colto nell’oscurità all’incrocio, con un’onda del ventaglio fece risorgere il sole nel cielo. Un ventaglio attaccato a un pozzo conficcato nel terreno indicava la posizione del cavallo del comandante. Una delle tante leggende sul famoso comandante Takeda Shingen (1521-1573) racconta che con l’aiuto di un ventaglio, Shingen si difese dalle truppe nemiche che lo incalzavano. Nelle fiabe giapponesi, il ventaglio svolge anche il ruolo di una bacchetta magica. Un ventaglio è un attributo indispensabile di un demone tengu: un ibrido tra un cane e un uccello, un demone dal naso lungo che vive in cima a un albero, di solito un pino. Facendo oscillare la vera rotonda, il tengu poteva allungare e accorciare il naso delle persone. Oltre all’uchiwa 団扇, in Giappone si è diffuso il ventaglio pieghevole (oogi o sensu). Si ritiene che l’oogi sia stato inventato in Giappone e poi preso in prestito dalla Cina, il caso più raro per l’antichità. Di solito il flusso di informazioni tecnologiche era diretto nella direzione opposta. Il ventaglio pieghevole era decorato con dipinti e poesie. L'”Okagami” dice che “i cortigiani fabbricarono vari ventagli e li presentarono al sovrano. Molti coprirono le cinghie dei ventagli con lacche d’oro e d’argento, alcuni intarsiarono le cinghie con inserti d’oro e legno aromatico di jin, legno di sandalo viola, intagliato, ha scritto canzoni giapponesi su carta indicibilmente bella e poesie cinesi, ridisegnando immagini di luoghi famosi dai libri…” Alla fine dell’VIII sec un’altra varietà di fan giapponesi divenne popolare: sensu. Le loro costole erano fatte di legni pregiati (sandalo o cedro giapponese, meno spesso di bambù) e poi incollate con carta giapponese. Nel XII sec. Divennero oggetto di oggetti di scena per le dame di corte, la cui raffinatezza e sensualità erano enfatizzate con molto successo dai graziosi contorni semicircolari del ventaglio. Allontanandosi dalla vita piena di passioni a corte, molti aristocratici divennero suore del tempio di Mieido, mantenendo nelle loro mani il sensu come una delle parti del mondo peccaminoso che potevano essere custodite nel monastero. Da qui il secondo nome di alcune varietà di questo tipo di ventaglio è “Mieido”. Inoltre, antiche leggende giapponesi dicevano che tali fan erano nelle mani degli dei, e proprio come il gunbai era un segno distintivo dei generali, così il sensu divenne una sorta di segno della generosità di una persona, nelle mani di chi era questo fan. In seguito, questo significato gerarchico andò perduto e sensu divenne uno dei più begli esempi di arti e mestieri e un gradito souvenir per il nuovo anno. Da questa varietà è nato il tessen 鉄扇 – un ventaglio con nervature di ferro con estremità appuntite, che sembra normale, ma che, in virtù del suo design, può essere utilizzato sia per la difesa che per l’attacco. Nonostante la presenza delle lame, la tecnica del loro utilizzo è piuttosto poco sviluppata nelle scuole di arti marziali giapponesi. Fondamentalmente, il ventaglio viene utilizzato nello stato ripiegato come una mazza pesante. Anche lo sviluppo dei fan del combattimento e dei segnali ha seguito un percorso diverso. Ad esempio, 采配 saihai, derivato dall’armamentario rituale shintoista. Ora tutti gli altri fan sono spesso chiamati così. Ogi è talvolta chiamato anche “ventilatore solare” per la sua leggerezza e il suo aspetto, simile a una parte del disco solare con raggi uscenti. Ogi è stato ed è usato dai ballerini ed è anche popolare tra le geishe (che a volte lo usano nelle danze tradizionali). Un numero relativamente piccolo di nervature, facilità di piegatura e apertura, nonché una grande opportunità per disegnare un’immagine rendono l’ogee indispensabile per un artista esperto. Tuttavia, nel Medioevo, l’ogia, come altri fan, era un oggetto simbolico e serviva anche come segno di una posizione agiata e ricchezza. Era usato, come i suoi omologhi, nelle cerimonie tradizionali, era tenuto nelle mani di importanti funzionari e membri della famiglia imperiale. Una volta importati dalla Cina e dalla Corea, i ventagli sono diventati parte integrante del costume tradizionale giapponese, e poi solo un popolare oggetto domestico, un accessorio comodo ed espressivo. I gesuiti, i marinai portoghesi e olandesi lo apprezzarono, e ben presto i ventagli apparvero nei paesi dell’Occidente, dove però, privi di nutrimento storico e necessità di utilizzo, non attecchirono e divennero per diversi secoli solo un oggetto di lusso nelle mani di giovani donne europee. I fan di vari tipi sono stati utilizzati attivamente nella pratica rituale.
Marisitemboo – il metodo “frusta” ci porta all’Unità, Unione – Yoga. Stabiliamo l’unità di noi stessi e del mondo. Uno dei modi è vedere il mondo intero rannicchiarsi in noi. L’altro è vedere noi stessi espanderci al tutto Il simbolo del primo sentiero è pasha – un lazo, – un simbolo per catturare e attrarre tutto Il simbolo del secondo sentiero è ankusha sanscrito a~Nkusha, la verga del guidatore che allontana tutto da noi. Abbiamo bisogno di entrambi questi percorsi: se pratichiamo solo l’attrazione verso noi stessi, allora faremo crollare tutto in un punto, se solo respingiamo tutto, allora allungheremo il mondo all’infinito. Abbiamo bisogno di un equilibrio di questi due metodi che la Dea ci dà! In testi giapponesi come Nippon Heiho Zenshu (parte di Genko kineshu), questo metodo è chiamato metodo della frusta saku 策励 e fede uchiwa 団扇. A questo proposito, vale la pena ricordare che il ventaglio del comandante 軍配団扇 gumbai uchiwa è uno degli strumenti della sezione speciale Heiho del gunbai jutsu. Visualizzazione. Un oceano al centro del quale c’è una montagna. C’è un castello sulla montagna, nel castello c’è un trono kayoza a forma di loto con quattro petali, sul trono c’è il simbolo di bonji ma. Quindi il bonji si trasforma in un ventaglio (simbolo e attributo di Marishiten), quindi Marishiten stessa appare dal ventaglio con ciò che la circonda. Parte di un’altra visualizzazione. …poi sul disco del sole vengono visualizzati i kanji ha 破 – distruggere e il nome del nemico. Quindi vengono raffigurati e tre colpi vengono applicati all’immagine con un ventaglio speciale. Quindi il mantra Marishiten viene letto 1000 volte, dopo la fine vengono fatti tre clic delle dita … Nel gumbai jutsu, i simboli venivano applicati al ventaglio. Oltre a raffigurare Marishiten antropomorficamente e sotto forma di Yatagarasu (triplo corvo), la Dea era raffigurata anche come un bonji siddham vam circondato da dodici lune che rappresentano il ciclo annuale (cinese Shih-erh-chih, giapponese juni shi). Cerchio consisteva di 28 punti rossi e bianchi, che, secondo un’ipotesi, rappresentano 28 segni zodiacali cinesi (cinese erh-shih-pa su, giapponese nijU hasshuku), ma per come la vedo io, indicano chiaramente 28 giorni lunari. La magia di questo tipo era ampiamente sviluppata in India e Tibet, contenuta nelle istruzioni di Artha Shastra e Bansensukai, in molti tantra dell’India e della Cina. Fonti giapponesi heiho hijutsu ikkansho, heiho reizuisho, genke kineshU e molti altri descrivono come gunbai uchiwa è usato per predizioni e calcoli astrologici, Il ventaglio era utilizzato anche per scopi cerimoniali: l’imperatore prediligeva i ventagli con cortigiani particolarmente illustri. Uno dei regali più popolari era un fan. Si credeva che portasse felicità e prosperità. La forma del ventaglio, a quanto pare, non è adatta ai giochi. Tuttavia, durante il periodo Edo, i giapponesi amavano giocare con i fan. Sulla superficie del tavolo è stato posto un bersaglio a forma di albero di ginkgo. Le hanno lanciato un ventaglio aperto. Dal modo in cui l’albero è caduto e dalla misura in cui il ventaglio si è rivelato aperto in seguito, il lanciatore ha ricevuto un certo numero di punti. L’idea – il ventaglio nasconde il volto, e quindi l’anima, trova la sua espressione nel fatto che quando si incontra una persona di rango superiore a te, l’uso del ventaglio per lo scopo previsto era proibito dalle regole della decenza: il volto di un subordinato dovrebbe essere sempre aperto. Il ventaglio è anche un accessorio indispensabile per l’attore. Nelle rappresentazioni del teatro No medievale, che è sopravvissuto fino ad oggi, ogni personaggio ha un fan inerente solo a lui. Se questo è un cinese, avrà tra le mani un ventaglio utiva rotondo. I fan con piatti neri (dovrebbero essercene 15) sono destinati a ruoli maschili e femminili, con quelli leggeri – per anziani e monaci. Poiché il ventaglio comporta movimenti diretti sia verso se stessi che lontano da se stessi, il ventaglio viene utilizzato nei rituali per un duplice scopo. Da un lato è in grado di scacciare gli spiriti maligni, dall’altro l’accentuato movimento del ventaglio verso se stesso ha lo scopo di evocare divinità. Il ventaglio è ampiamente utilizzato nelle danze rituali eseguite nei santuari shintoisti. A questo proposito, un attributo indispensabile del prete è un ventaglio. Sono stati registrati casi in cui un fan è venerato come il principale santuario del tempio in cui vive una divinità. Uno dei termini che denota la comunità dei credenti è proprio il ventaglio. Cioè, le assi del ventaglio pieghevole fissate con uno spillo simboleggiano l’unità dei suoi componenti di bambù – membri della comunità religiosa Il ventaglio è ampiamente usato nelle danze rituali eseguite nei santuari shintoisti. A questo proposito, un attributo indispensabile del prete è un ventaglio. Sono stati registrati casi in cui un fan è venerato come il principale santuario del tempio in cui vive una divinità. Uno dei termini che denota la comunità dei credenti è proprio il ventaglio. Cioè, le assi del ventaglio pieghevole fissate con uno spillo simboleggiano l’unità dei suoi componenti di bambù: i membri della comunità religiosa. Nella mentalità giapponese, l’aldilà era governato dai Buddha, non dalle divinità shintoiste. Pertanto, per una rinascita di successo in un paradiso buddista, bisognava rompere i propri legami con le divinità, sebbene durante la vita fosse (e rimanga) del tutto normale per quasi tutti i giapponesi visitare sia i templi buddisti che i santuari shintoisti. Inoltre, era necessario impedire il ritorno dello spirito del defunto nel mondo dei vivi e fare in modo che l’anima del defunto lasciasse completamente questo mondo. Altrimenti, gli spiriti maligni potrebbero, attraverso le cose a lui più vicine, causargli un danno irreparabile. C’erano diversi modi per rompere con gli dei e la vita. Era possibile capovolgere gli abiti del defunto. Potresti rompere la sua tazza. Ed era possibile dopo la morte rompere il ventilatore e lanciarlo sul tetto della casa o gettarlo sul suo pattino. Anche le mappe geografiche sono state disegnate sui fan: i viaggiatori hanno portato con sé tali fan sulla strada. Vale anche la pena notare che il fan è un attributo di un professionista del Go. Hanno un’interessante tradizione di scrivere slogan, citazioni, ecc. sui loro fan.
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TENGU

I Folletti della montagna:
Uno dei più noti di tutti gli yo-kai, il tengu ha avuto un ruolo lungo e vario nella storia, nella religione, nella letteratura e nel folklore giapponese. Spesso caratterizzati come “Folletto di montagna”, i tengu tendono ad avere caratteristiche simili a uccelli e abilità superlative nelle arti marziali e sono spesso associati al buddismo e alle pratiche ascetiche di montagna. Ancora oggi ci sono santuari di montagna e festival che onorano il tengu. Esistono due tipi di tengu. Il primo è il karasu tengu, letteralmente un “corvo tengu”, che è una creatura simile a un uccello con ali, bocca a becco e capacità di volare. Nonostante la parola corvo, i karasu tengu sono spesso raffigurati come rapaci, in particolare tonbi (aquiloni). Durante il periodo Edo, il karasu tengu fu gradualmente soppiantato da una creatura più umana: alta, vestita come un monaco buddista o un altro praticante religioso, e dotata di un naso lungo, bulboso e rosso. Questo tengu dal naso lungo è la versione più comunemente rappresentata nella cultura giapponese oggi. In alcuni casi, i karasu tengu sono raffigurati come luogotenenti di questa illustre figura dal naso lungo. Tengu significa letteralmente “cane celeste” o “segugio celeste”, e la stessa combinazione di kanji si trova in vari antichi testi cinesi, dove si riferisce a una cometa o a una stella o forse a una “enorme meteora a forma di cane. In Giappone, la parola si trova per la prima volta nel Nihonshoki, in una voce per l’anno 637, in cui è riportato che “una grande stella fluttuava da est a ovest, e c’era un rumore simile a quello di un tuono”. Un monaco spiega che questa non è una stella cadente ma piuttosto un “Cane Celeste, il cui suono che abbaia è come un tuono”. Sembra o si comporta come un cane; piuttosto è quasi sempre raffigurato come antropomorfo o aviario (o un misto di entrambi). È impossibile svelare l’esatto processo attraverso il quale una parola che significa “segugio celeste” e che indica un evento astronomico è venuta gradualmente a significare un monaco dal naso lungo con le ali, ma è chiaro che questa trasmogrificazione riflette un misto di storia, religione e influenze popolari. Ad esempio, l’immagine aviaria del tengu può essere associata in qualche modo al Garuda, una figura di uccello divino che occupa un posto di rilievo sia nelle credenze indù che in quelle buddiste, e che molto probabilmente è entrata in Giappone attraverso la Cina, insieme al buddismo stesso. Ma proprio come il buddismo ha attraversato molti cambiamenti nel suo lungo viaggio attraverso i continenti, così anche i tengu, e i significati e le immagini ad essi associati, sono cambiati con le diverse circostanze storiche. Durante il periodo Heian, i tengu erano considerati forze misteriose che risiedevano nelle montagne. Simile a mono-no-ke, erano spiriti maligni amorfi che potevano causare malattie o guerre o tormentare un individuo. Ci sono poche registrazioni di come potevano apparire durante questo periodo: generalmente erano invisibili, ma a volte uno poteva apparire come un uccello o un monaco. Fu solo nel periodo Kamakura che i tengu iniziarono ad acquisire caratteristiche più consolidate. Considerati incarnazioni post-morte di imperatori o guerrieri morti, sarebbero apparsi come creature malvagie simili a uccelli, monaci o yamabushi (asceti di montagna), discendenti dalle montagne per tormentare i poteri costituiti. Nel Taiheiki (Cronaca della grande pace; fine XIV secolo), ad esempio, l’imperatore Sutoku del XII secolo, che fu bandito in una remota provincia, è descritto come un aquilone che trama con una truppa di demoni e tengu il modo migliore per interrompere l’umanità. Fu anche durante questo periodo che il tengu assunse un rapporto più profondo con il buddismo; in particolare erano associati al concetto di ma, o male, ciò che ostacola una persona sul sentiero verso l’illuminazione. Alcuni dei setsuwa raccolti nel tardo periodo Heian Tales of Times Now Past raccontano di tengu che possiedono (e insegnano) poteri soprannaturali chiamati gejutsu (tecnica esterna): magia non buddista che era ingannevole e poteva essere usata per scopi nefasti. Sebbene i tengu potessero apparire come monaci compiuti, in realtà i loro poteri erano falsi e non avrebbero portato all’illuminazione. Ma i tengu, come tanti yo-kai, sono ambigui. In un racconto, ad esempio, un asceta di montagna è chiamato a guarire un imperatore malato. L’asceta dimostra incredibili poteri magici, curando rapidamente l’imperatore. Ma i sacerdoti dell’imperatore, dopo aver studiato la via del Buddha, sono sospettosi delle capacità misteriose dell’asceta e cominciarono a dirigere incantesimi verso di lui. Un testo chiamato Hirasan kojin reitaku, per esempio, registra un affascinante dialogo tra un monaco e un tengu. Il tengu, parlando attraverso una giovane donna che ha posseduto, racconta al monaco del regno ultraterreno del Tengu-do- e dei suoi abitanti (compresi alcuni ex imperatori). Nei minimi dettagli zoologici, descrive anche gli stessi tengu come delle dimensioni di bambini di dieci anni, con corpi e teste umane, code corte, zampe di uccello e ali lunghe circa un metro. Nelle controversie tra diversi templi e sette buddisti, a volte una fazione negherebbe rappresentare attivamente i sacerdoti di un altro fondendoli con tengu. Rappresentare un monaco di un tempio opposto come un tengu era un modo per demonizzarlo e implicare che i suoi insegnamenti fossero pericolosi o ingannevoli. Allo stesso tempo, possiamo anche immaginare come i tengu possano diventare potenti simboli del perdente, rappresentando uno spirito ribelle e antiautoritario. È forse in questo contesto che sono diventati famosi per conoscere le tecniche segrete delle arti marziali. Il più famoso, si dice che il tengu abbia addestrato Minamoto no Yoshitsune, uno dei grandi guerrieri della storia giapponese. Yoshitsune era il fratello minore di Minamoto no Yoritomo, il capo delle vittoriose forze Genji durante la Guerra Genpei (1180–1185), il grande conflitto civile che portò alla fondazione del governo di Kamakura. In qualità di generale Genji, Yoshitsune era famoso per le sue abilità militari, che, secondo la leggenda, imparò dai tengu quando visse da bambino al Tempio Kurama nell’odierna Kyoto. Questa spiegazione per la sua abilità militare sembra essere entrata a far parte dell’immaginario culturale popolare abbastanza presto. L’Heiji monogatari (Il racconto di Heiji) del periodo Kamakura, ad esempio, osserva semplicemente che “si racconta che a Yoshitsune notte dopo notte veniva insegnato il manuale delle armi da un Tengu. . . in Kurama-yama. Per questo poteva correre e saltare oltre i limiti del potere umano». Il rapporto tra il tengu e Yoshitsune, o Ushiwaka come lui è stato chiamato da bambino, è stato elaborato in un gioco Noh, Kurama tengu, e in una forma drammatico-letteraria meno conosciuta chiamata ko-wakamai, del periodo Muromachi. Quest’ultimo lavoro, intitolato Miraiki (Cronaca del futuro), si apre con Ushiwaka che si allena da solo ogni sera in un’area boscosa dietro il Tempio di Kurama. Alcuni tengu lo individuano lì e all’inizio si risentono per la sua intrusione nel loro territorio. Ma quando riconoscono che si sta allenando per vendicare la morte di suo padre, un tengu dice agli altri: “Siamo conosciuti con il nome di tengu, c’è una ragione per questo. Eravamo umani molto tempo fa, ma studiando bene il dharma sentivamo che non c’era nessuno più esperto, e poiché ci gonfiavamo di orgoglio, potevamo non diventare Buddha e cadere nella Via del Tengu [Tengu-do-]. Ma anche sebbene questo orgoglio ci abbia fatto cadere su questa strada, non c’è motivo per cui non dovremmo conoscere la pietà. Quindi aiutiamo Ushiwaka, insegnagli il metodo del tengu in modo che possa attaccare il nemico di suo padre. E così, apparendogli come yamabushi, i tengu invitano Ushiwaka a tornare nella loro dimora. Ushiwaka è sospettoso di queste figure simili a monaci ma, sentendosi avventuroso, accetta di accompagnarli. Presto viene portato via su una montagna che non ha mai visto prima: un posto bellissimo, fittamente boscoso, con rocce che si ergono maestose, la fragranza dei fiori e il suono di una cascata. Entrano in un magnifico tempio, dove un centinaio di tengu suonano strumenti musicali. Ushiwaka si unisce a loro per un meraviglioso pasto con cibi delle montagne e dei fiumi, aromatizzati con tutti i tipi di spezie. I tengu (che presumibilmente appaiono ancora come monaci o yamabushi) procedono quindi a mettere in scena una sorta di commedia, in cui uno per uno assumono ruoli di attori chiave nel conflitto Genpei, per il quale Ushiwaka si sta allenando. Essenzialmente rappresentano il futuro per lui, spiegando il proprio ruolo nel conflitto e persino informandolo che, dopo l’ultima battaglia, perderà il favore del fratello maggiore. Tutte le loro previsioni, ovviamente, sono esatte: anzi, il lettore o lo spettatore di Chronicle of the Future saprebbe già che Yoshitsune finirebbe per essere ucciso, infamemente, dal fratello maggiore. È interessante notare, tuttavia, che nel racconto non è coinvolto un addestramento militare esplicito: forse il semplice ricevere questa visione del futuro è sufficiente per rendere Ushiwaka un guerriero superiore. Quando i tengu hanno finito il loro racconto, danno al ragazzo una pallina di ferro come segno della sua visita, e poi scompaiono. Improvvisamente Ushiwaka si ritrova su un ramo di un pino dietro il tempio. Pensa: “Beh, sono stato ingannato da tengu.” A volte è in grado di raccontare la storia di essere stato rapito da uno sconosciuto, di solito un uomo più anziano, che lo ha portato in luoghi lontani. Una storia di Takayama nella prefettura di Gifu, ad esempio, racconta di un ragazzo impiegato da una famiglia di mercanti. Il ragazzo riceve un nuovo paio di geta (sandali di legno) dal suo padrone e progetta di indossarli quella sera. Tuttavia, il suo padrone lo avverte che se indossa il suo nuovo geta la sera, “un tengu lo porterà via”. Ma il ragazzo è così entusiasta di avere le nuove scarpe che le indossa comunque di nascosto ed esce in strada e non viene più visto. Quando il suo padrone si rende conto che è scomparso, ne consegue un grande trambusto e una truppa di persone viene arruolata per la ricerca. Alla fine, circa una settimana dopo, trovano il ragazzo in piedi su un ponte, con l’aria esausta. Spiega che mentre camminava quella sera nel suo nuovo geta, un uomo grosso con un naso lungo e le ali sulla schiena gli si avvicinò e gli disse: “Sali sulla mia schiena e ti porterò in un buon posto”. Il ragazzo ha fatto come gli era stato detto, ma dopo non ricorda più nulla. “La cosa successiva che ho realizzato è che mi trovavo qui su questo ponte.” Il racconto termina con il commento “Dicono che fosse un tengu”. Allo stesso modo, Yanagita Kunio registra un episodio del 1877 che ebbe luogo nella città di Kanazawa nella prefettura di Ishikawa e che gli fu riferito come un ricordo d’infanzia dal romanziere Tokuda Shu-sei (1871-1943). Nella casa accanto a quella di Tokuda, un giovane di circa vent’anni scomparve da sotto un grande albero di cachi, lasciando solo il suo geta. Dopo aver cercato per molto tempo, improvvisamente tutti hanno sentito un forte rumore in soffitta, come se qualcosa cadesse. Quando il fratello maggiore di Tokuda salì per indagare, scoprì il giovane che giaceva lì. Dopo averlo portato al piano di sotto, videro che la sua bocca era verde, come se avesse masticato foglie d’albero. Quando si riprese a sufficienza, spiegò che era venuto un uomo grosso e lo aveva portato via; avevano viaggiato qua e là, mangiando ovunque andassero. Dopo un po’, disse all’uomo che doveva andare e lui riuscì a scappare, e fu allora che lo trovarono in soffitta. Non c’è, infatti, alcuna menzione specifica di un tengu in questa storia, e certamente nel corso della storia ci devono essere stati casi in cui i bambini sono stati accidentalmente persi o uccisi, o rapiti da altri umani. Sebbene diversi yo-kai (inclusi kitsune e oni) possano essere implicati in tali rapimenti, almeno fin dal periodo Kamakura il tengu è stato l’autore più comunemente accusato di questo tipo di crimine. La leggenda di Ushiwaka menzionata in precedenza, ad esempio, si adatta allo schema. Anche in epoca moderna è chiara la correlazione di tali rapimenti con poteri soprannaturali. Yanagita racconta un’altra storia, del 1907, di un ragazzo che scompare durante una festa in cui gli abitanti del villaggio fanno offerte di riso alle divinità. Quando il ragazzo viene trovato nella soffitta di una casa, spiega che un uomo più anziano lo ha portato di casa in casa per banchettare con il cibo lì offerto, e infatti la sua bocca è coperta di riso. Ancora, non vi è alcuna menzione esplicita di tengu, ma è chiaro che il ragazzo era in compagnia di un essere soprannaturale; possiamo anche vedere evidenti somiglianze con La leggenda di Tokuda Shu-sei. Forse l’esempio più famoso di rapimento soprannaturale durante il periodo Edo è la storia del ragazzo Torakichi, che affermava di essere stato portato in una serie di viaggi mistici intorno al mondo, e persino sulla luna, da un abile tengu. Le sue avventure sono arrivate all’attenzione dello studioso nativista Hirata Atsutane, che lo ha intervistato ampiamente e ha registrato le sue scoperte in un testo chiamato Senkyo-ibun (Strane notizie dal regno degli immortali). Sebbene il testo fosse influenzato dalle particolari prospettive religiose e politiche di Atsutane, rivela dettagli, sia fantastici che banali, sugli abitanti dell’aldilà, inclusi animali (reali e leggendari) e ogni sorta di demoni. Nel Giappone contemporaneo, l’idea del kamikakushi è ancora ben nota, principalmente a causa dell’anime di successo di Miyazaki Hayao Sen to Chihiro no kamikakushi (2001), che è stato opportunamente tradotto in inglese come La città incantata. Sebbene nessun tengu appaia nel film, e il modo in cui i personaggi vengono “portati via” è molto diverso dalle leggende qui riportate, il successo del film al botteghino ha riportato la parola e il concetto di kamikakushi nell’immaginario popolare. Recentemente il concetto è comparso nella letteratura e nei media visivi e persino come tema per diversi siti web. Nel frattempo, nel Giappone contemporaneo, i tengu sono spesso invocati come simboli dell’identità locale, sebbene conservino ancora le loro associazioni mistiche e storiche. Nella città di Hachio-ji, ad ovest del centro di Tokyo, ad esempio, il Monte Takao presenta diverse statue di tengu, tributi alle leggende ad esse associate nell’area. E al Takao-san Yakuo, nel tempio sulla montagna, ci sono le statue di un daitengu dal naso lungo e di un kotengu dal naso a becco. Appropriatamente, inoltre, l’associazione del tengu con lo shugendo- è ancora molto viva: il tempio è un centro di culto degli asceti di montagna, dove i praticanti si sottopongono ancora ad austerità come l’addestramento nelle cascate e la camminata sul fuoco. L’immagine e il nome tengu sono anche comunemente usati per la merce. C’è una popolare catena di izakaya (ristoranti-bar) poco costosi chiamata Tengu, per esempio, che utilizza un’immagine stilizzata dell’essere dal naso lungo come sua icona. C’è anche un famoso sakè prodotto nella prefettura di Ishikawa chiamato Tengumai (Danza del tengu). In breve, i tengu hanno una lunga storia e sebbene abbiano subito molti cambiamenti, rimangono oggi uno degli yo-kai più distintivi e vitali del Giappone, con ruoli nella vita della comunità locale, nella religione, nel turismo e nel commercio.


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